by Sergio Segio | 25 Maggio 2011 18:03
I messaggi che arrivano da tutto il mondo – dal presidente russo Dmitri Medvedev[1], dal capo della diplomazia europea Catherine Ashton, dal Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon – si assomigliano un po’ tutti e, oltre a rivelare un ossequio della prammatica, tradiscono una certa ansia di ribadire la vicinanza delle istituzioni che rappresentano all’Africa, che oggi celebra la sua giornata. Il venticinque maggio del 1963 veniva fondata l’Organizzazione dell’unità africana, il primo embrione di un corpo politico di raccordo continentale, poi diventato nel 2002 Unione Africana[2]. Una giornata dell’orgoglio africano che arriva quasi a mettere il sigillo su un anno che probabilmente verrà ricordato come quello dell’ingresso ufficiale nel cosiddetto mondo sviluppato. E le principali potenze sono pronte a darle il benvenuto, non certo o non solo per filantropia.
Che il vento sia cambiato se ne è avuta la conferma all’ultimo World Economic Forum on Africa, svoltosi ai primi di maggio a Città del Capo, Sudafrica, preceduto da un dossier della società di consulting Ernst&Young che ha messo nero su bianco le cifre del boom africano. Impetuosa la crescita attesa di un continente il cui Pil nel 2020 toccherà i 2600 miliardi di dollari, mille miliardi in più rispetto a quello registrato nel 2008. Merito anche di un aumento vertiginoso dei consumi previsti per lo stesso anno, stimato intorno al 62 per cento, per una cifra pari a 1400 miliardi di dollari. C’è un nuovo, imponente segmento di consumatori, insomma, che si sta affacciando sul mercato, una classe media[3] sulla cui consistenza manca un’analisi univoca, di natura economica e sociologica, ma c’è e sarà sempre più determinante. Circa trecento milioni di persone, prevedono gli analisti della Banca di sviluppo africana, un abitante del continente su tre, che avranno un reddito maggiore – compreso tra i 2 e i 20 dollari al giorno – non più speso solamente per il sostentamento. Gli africani che avevano una discreta possibilità di spesa erano 111 milioni nel 1980 (il 26 per cento della popolazione), 151 milioni nel 1990 (27 per cento), 196 milioni nel 2000 (pari ancora al 27 per cento). Nel 2010 il numero era saltito a 313 milioni, il 34 per cento della popolazione, con una crescita del 60 per cento in un decennio, riflesso di economie che negli ultimi anni hanno registrato alti tassi di crescita. Nel complesso, si prevede che il Pil continentale crescerà di un 5,5 per cento nel 2011 e di un 5,8 per cento l’anno successivo.
Questo mercato ha un potenziale enorme e naturalmente fa già gola a tanti. Sembrano lontani i tempi dell’Africa continente delle malattie e dei colpi di stato con frequenza giornaliera. Oggi gli investimenti non appaiono più rischiosi come una volta e la fila di chi vuole fare affari qui è già molto lunga. Gli analisti di Ernst&Young prevedono che entro il 2015 il flusso di capitali stranieri potrebbe quasi raddoppiare, passando da 84 miliardi a 150 miliardi di dollari nel giro di cinque anni. In pole position c’è ovviamente la Cina[4] che con pazienza e lungimiranza ha costruito una rete economica che vale circa 107 miliardi di dollari di scambi commerciali. Sono le infrastrutture il passepartout utilizzato da Pechino per assicurarsi una fetta consistente delle enormi ricchezze minerarie ed energetiche africane. Basta seguire siti e riviste specializzate, che ogni giorno si ha notizia di un nuovo affare, di un altro appalto o di una joint-venture: la Cina, insieme alla World Bank, ha sborsato 400 milioni di dollari per rimettere in sesto la rete ferroviaria di epoca coloniale in Congo, un progetto da tremila chilometri e oltre un miliardo e mezzo di dollari da completare in 20 anni. E’ la China’s Export and Import Bank, statale, che metterà 180 milioni di dollari per costruire una strada che colleghi lo Zambia alla regione dei Grandi Laghi. Come la Cina, l’India mira agli idrocarburi africani, per diversificare le sue fonti di approvvigionamento e ridurre la dipendenza dai produttori mediorientali. Anche New Delhi si sta muovendo e lo sta facendo velocemente: gli scambi tra i due Paesi ammontavano a tre miliardi nel 2000 ma erano saliti a 46 miliardi dieci anni dopo. Per il 2015, l’obiettivo è di portarli a oltre 70. Per ora i partner più importanti sono Angola, Nigeria e Sudan da cui l’India importa petrolio, Botswana, Namibia, Sudafrica e Zimbabwe, dai quali arrivano i diamanti che alimentano l’industria del taglio. La Bharti Airtel che grazie all’acquisizione della Zain è attiva in una quindicina di Paesi. Ma non vanno dimenticati Russia e Brasile, altri membri del cosiddetto Bric che in Africa sono sempre più attivi. L’ex presidente Luis Inacio Lula[5] durante i suoi due mandati ha visitato 25 Paesi africani, raddoppiato il numero delle ambasciate nel continente e portato il volume degli scambi ai 26 miliardi di dollari del 2008, quando otto anni prima erano poco più di tre.
Ma questa crescita economica che si sta traducendo in un parallelo aumento del peso politico del continente, dimostrato dal consenso riscosso dall’ipotesi di assegnare ad uno stato africano un seggio in un riformato Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, posto per il quale competono Nigeria e Sudafrica. Anche al vertice del Fondo monetario internazionale, al posto del dimissionario Dominique Strauss Kahn[6], non sono pochi quelli che chiedono una nomina che premi un Paese proveniente dalle aree meno sviluppate. Il nome che circola, per il continente, è quello del sudafricano Trevor Manuel, attualmente alla guida della Commissione di pianificazione nazionale. Infine, a sugellare questa crescita è arrivato l’invito rivolto ai capi di stato di tre Paesi dell’Africa Sub-sahariana (Costa d’Avorio, Guinea e Niger) al summit del G8 che si terrà il 26 e il 27 maggio a Deuville, in Francia. Un ingresso simbolico tra i grandi della terra.
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