by Editore | 25 Maggio 2011 7:13
Ieri, all’ospedale di La Spezia, è morto Giovanni Giudici, uno dei maggiori poeti italiani della seconda metà del Novecento. Era nato a pochi chilometri da lì, alle Grazie, vicino a Portovenere, il 26 giugno del 1924: aveva dunque ottantasette anni. Si considerava – amava ripeterlo con un sorriso – «un ligure diseducato a Roma». Nella Capitale aveva vissuto per quasi un trentennio. Una delle proprie poesie che più amava, cominciava così: «In quel pontificio collegio – di quell’Italia fascista – dove patii per la prima volta – il parlare diverso – e la mancanza del mare». Per lunghi decenni, le Grazie sarebbero rimaste il luogo delle vacanze, «il paese in riva al mare – dov’ero nato e non potei restare». La Liguria e il ricordo dell’educazione cattolica – proprio L’educazione cattolica s’intitola una sua raccolta giovanile – si mescoleranno per sempre nella sua sensibilità . La successiva adesione all’ideologia marxista rappresenterà una variante, soffusa di un’ironia assai personale, rispetto a questo nucleo originario di pensieri e d’immagini. Basta prendere in mano il volume dei Meridiani Mondadori che sotto il titolo La vita in versi raccoglie la sua opera – quasi duemila pagine, edito nel 2000 – per capire che l’aggettivo “ligure”, che si aggiunge alla sua qualifica di poeta, non è una mera specificazione anagrafica. Come non lo è, naturalmente, per un Montale o uno Sbarbaro.
Prima di affermarsi come poeta, Giudici aveva fatto un’anticamera abbastanza lunga. Nel ’56, come non pochi intellettuali della sua generazione, era entrato fra i seguaci di Adriano Olivetti e del movimento Comunità . A Ivrea, dove si trasferì, diventò funzionario della biblioteca aziendale, senza sentirsi pienamente partecipe di quel mondo, percorso da singolari pulsioni “riformatrici. Il capoluogo canavesano – che in quegli anni sembrava una sorta di “moderna Atene periclèa”, così scriveva – nutrirà la sua vena epigrammatica. Vi figureranno in particolare le serate trascorse nella hall dell’Hotel Dora, il principale della cittadina, «dove s’affacciano a quest’ora – gli uomini di successo», e le ore passate nel locale circolo del cinema, sulle cui poltrone «educatamente s’attedia – il pubblico di gente intelligente – più della media». Giudici conosce tanta gente, a Ivrea. Si fa degli amici, da Geno Pampaloni a Franco Fortini, da Ludovico Zorzi a Paolo Volponi: sono loro la vera risorsa di quella città -fabbrica, e lo accompagneranno a lungo nella vita. Più tardi, sentendosi definire “olivettiano”, obietterà comunque di considerarsi soltanto «un intellettuale che lavora alla Olivetti».
Si profilò presto, per quel trentenne ligure-romano, una seconda trasferta piemontese: Torino. Per Giudici fu «un po’ come uscire all’aria aperta». Non gli parve vero di ottemperare al “comando” della Olivetti di spostarsi da Ivrea nella capitale ex-sabauda. Si doveva dare vita a un settimanale finanziato dalla società d’Ivrea e diretto da Pampaloni, La via del Piemonte. Io ne ero il redattore capo. Nel giro di circa un anno, la vicinanza di vita e di attività con Giudici, entrato anche lui in quel giornale, si rivelò (non sembri un’iperbole d’occasione) memorabile. Lui era un arguto giornalista. Lavoravamo in un clima blandamente scherzoso che avrebbe connotato per sempre i nostri rapporti. Anni fa, Giudici ha ricordato sull’Unità una nostra cena in un paese delle Langhe. Doveva essere la primavera del 1958. Erano con noi Giovanni Arpino e Beppe Fenoglio, non ancora famoso. Alto, robusto, con il naso fiorito, Fenoglio ci disse: «Sto scrivendo un romanzo. In inglese. Lo tradurrò in italiano, se mai riuscissi a finirlo». Parlava, lo avremmo saputo più tardi, del Partigiano Johnny.
Poi, trasferiti entrambi a Milano nella Direzione Pubblicità e Stampa della Olivetti, ci trovavamo insieme ogni giorno. Morto l’ingegnere Adriano, ci raggiunse a Milano Pampaloni, detto bizzarramente il Ninì, per consonanza con una remota e mitica soubrette, Ninì Pampam. Poi Giudici, come poeta, “sfondò”. continuava la frequentazione di Franco Fortini, che era una sorta di sentinella “di sinistra” – almeno noi amici lo consideravamo tale – che il destino aveva messo accanto a Giudici per impedirgli di abbandonarsi alle sue suggestioni cattoliche. Sia Fortini che Giudici collaboravano ai Quaderni piacentini, la rivista di Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi (per Giovanni, un’amica vera). E così in Giudici il marxismo appreso da adulto sembrava conciliarsi con i benevoli fantasmi della sua gioventù.
Dalla primavera del 1992, il poeta – ormai in pensione da quell’azienda della quale aveva pubblicizzato per decenni i prodotti – cominciò, in maniera graduale, a trasferirsi in quell’angolo dell’amata Liguria dove sarebbe invecchiato. Tornavano alla mente quelle diciassette poesie di Giovanni che uscirono nel 1961 sulla rivista Il Menabò: la piccola raccolta s’intitolava “Se sia opportuno trasferirsi in campagna”.
L’ultima volta che gli ho parlato, volendo ricordarlo sul giornale per i suoi ottant’anni, trovai il poeta Giudici assediato da una nostalgia diversa da quella che gli sapevo consueta. Parlava – adesso che aveva realizzato il suo sogno di ridiventare un provinciale – delle due metropoli che avevano più contato nella sua vita: Roma e Milano. A proposito di quest’ultima, rievocava una scena che s’era svolta una dozzina di anni prima a palazzo Marino: davanti a tutta la Giunta comunale, gli venne consegnato l’Ambrogino d’oro, una medaglia di benemerenza civica. E non si capiva se in quella descrizione prevalesse il compiacimento o quell’autoironia gentile che gli conoscevo da sempre. «Capisci», insisteva, «tutta la Giunta schierata». Un po’, forse, mi prendeva in giro.
E Roma? Ecco affiorare anche quella. Con struggimento. Giovanni la riscopriva materna, casereccia e sentimentale. La rivedeva come in una foto datata anni Cinquanta. Il poeta non si nascondeva di dipingere un paesaggio reso irriconoscibile dal tempo. Di inventarlo a suo uso personale. «Fatto sta», mi disse, «che amo moltissimo la città che avevo creduto di odiare, e che non esiste più. Ci troviamo sempre nel posto giusto al momento sbagliato. O anche viceversa».
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