2010, Amnesty celebra la svolta sui diritti “Web e primavere arabe, il mondo è migliore”

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ROMA – Nel pianeta connesso e nell’era digitale non c’è più posto per gli abusi. Ai tempi di Facebook e Twitter è scomparsa la divisione fra i fortunati occidentali, nei Paesi civilizzati e rispettosi dei diritti umani, e le masse un tempo dimenticate nelle terre della prepotenza. Non c’era modo più adeguato di festeggiare i cinquant’anni, per Amnesty International, che presentare il rapporto annuale 2011 con una sfumatura di ottimismo: chi l’avrebbe immaginato, mezzo secolo fa, che la dignità  degli esseri umani avrebbe fatto tutta questa strada?
Nessuno avrebbe creduto di ottenere risultati «mobilitando persone comuni», ricorda la presidente Christine Weise. Eppure i semplici hanno conquistato la Storia con la S maiuscola, in quella che oggi è «una rivoluzione dei diritti umani». Nelle parole della Weise la formula magica si svela: è la miscela fra la mobilitazione tenace e l’accesso alla Rete, la militanza e l’interconnessione computerizzata. Le rivolte in Medio oriente e nord Africa sono il segnale più evidente: «La gente sfida la paura. Persone coraggiose scendono in strada nonostante le pallottole, le percosse, i gas lacrimogeni e i carri armati», dice la presidente di Amnesty.
Certo, c’è ancora molto da fare: nei 98 paesi che usano la tortura, nei 54 che adottano una giustizia iniqua, negli 89 che limitano la libertà  d’espressione, nei 48 che detengono prigionieri di coscienza, nei 23 che hanno fatto lavorare il boia o nei 67 che hanno emesso condanne capitali. Ma le cifre che riassumono il 2010 non dicono tutta la verità : cioè che queste violazioni sono sempre più intollerabili, perché nel mondo la concezione della sacralità  umana è sempre più solida. 
Ne fa parte anche una voglia di democrazia impossibile da sopprimere, quasi che la bandiera della Tunisia, il paese dove la rivolta del Maghreb è cominciata, sia esposta ovunque, dall’Azerbaigian allo Zimbabwe, in un alfabeto dove finalmente è presente la vergogna, dove le violazioni diventano più nascoste e inconfessabili.
È la globalizzazione: quella dei diritti, non solo quella dell’economia. Ovviamente ci sono resistenze: «Era dai tempi della Guerra fredda che così tanti governi non affrontavano una sfida al loro attaccamento al potere». Ma adesso i blocchi non esistono più, la richiesta di diritti che si propaga «è la prova che costituiscono una esigenza universale». A sottolineare che il movimento non si ferma, potrebbe bastare l’idea che un personaggio come Hosni Mubarak, fino a ieri simbolo dell’immutabilità  del potere, dovrà  rispondere dei suoi abusi, che Zine el Abidine Ben Ali potrebbe essere costretto a farlo. Insomma, dice la Weise, «il genio è uscito dalla bottiglia e le forze della repressione non potranno ricacciarlo dentro».
In questo senso mostra «un respiro corto» anche la politica del governo italiano, con «gli sgomberi forzati dei campi nomadi», con «la discriminazione dei Rom», con «l’intolleranza nei confronti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender». «Il 2010 è cominciato con i fatti di Rosarno», ricorda Giusy D’Alconzo, responsabile per l’Italia. Ed è continuato «senza investimenti sul futuro», con il tentativo di cancellare e ridurre a un problema di sicurezza un fenomeno insopprimibile come le migrazioni. «Ma l’umanità  in cammino», sottolinea la delegata di Amnesty, «non si può recintare».


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