Zapatero, addio alla “Cool Hispania” “L’anno prossimo non mi ricandido”

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E ieri lo ha fatto anche José Luìs Rodriguez Zapatero, informando il vertice del partito socialista spagnolo che alle elezioni di marzo dell’anno prossimo non intende ricandidarsi. Un limite ai mandati, un limite alle carriere politiche, è un balsamo per le democrazie. In alcuni paesi è la Costituzione a prescriverli: ma sono rari, molto rari i paesi in cui è lo stesso leader politico a rinunciare ad una prosecuzione ininterrotta della propria vicenda di governante. Ne sappiamo qualcosa noi italiani che abbiamo avuto sette governi Andreotti, quattro Berlusconi, e vediamo in Parlamento le stesse facce da quasi quarant’anni. Zapatero ha dunque salutato, e s’appresta ad uscire dalla comune. Con la stessa aria da liceale, da primo della classe che guarda con profonda fiducia all’avvenire, che lo distinse agli esordi: ma al quale l’avvenire ha poi riservato sorprese amare. Dagli ultimi tre o quattro anni di governo, Zapatero ha avuto infatti soltanto insuccessi, gravissime difficoltà  economiche, un continuo sfaldamento del suo elettorato. Una rovinosa perdita di credibilità , che fa pronosticare ai giornali spagnoli la sicura vittoria del suo avversario di centrodestra, Mariano Rajoy, alle elezioni dell’anno venturo. Uno sgretolamento dell’immagine che dalla Spagna s’è trasferita a poco a poco sulla scena internazionale, e soprattutto alle agenzie di rating che giudicano (malissimo) la solidità  del debito spagnolo. Eppure, con quale entusiasmo Zapatero era stato accolto, in Spagna e in Europa, dalle sinistre. S’era parlato persino di un “modello Zapatero”. In effetti, l’inizio del suo governo era stato nel 2004 folgorante. A sedere nel nuovo governo c’erano otto uomini e otto donne, un record assoluto in tutti i cinque continenti. Non erano trascorse due settimane dal suo insediamento al Palacio de la Moncloa, dove stanno gli uffici e la residenza del capo del governo, che Zapatero annunciò il ritiro delle forze militari spagnole dall’Iraq, dov’erano andate, l’anno prima, insieme a quelle degli altri alleati degli Stati Uniti. Tripudio, quindi, tra i pacifisti spagnoli ed europei. Altro tripudio quando alla festa nazionale (il nostro 2 giugno), durante la sfilata dei reparti militari non s’alzò, fu l’unico a restare seduto, al passaggio della bandiera americana. Il ritiro dei soldati spagnoli dall’Iraq fu comprensibile: Zapatero lo aveva promesso in campagna elettorale, e risultò quindi come un meritorio gesto di coerenza. Ma lo sgarbo alla bandiera americana somigliò ad una bravata, e la Spagna lo pagò con un lungo periodo d’isolamento internazionale. Subito dopo, comunque, ebbe inizio quello che a Madrid veniva chiamato el bombardeo, il bombardamento. Vale a dire l’interminabile serie degli annunci di riforme, tanto rapidi – e in alcuni casi troppo frettolosi, se non addirittura avventati – che gli spagnoli ne ebbero la testa frastornata. Legge sul divorzio-lampo, legge sul matrimonio tra omosessuali (nel solo primo anno 4500 matrimoni), sulla procreazione assistita, sulla drastica riduzione degli aiuti alla Chiesa per le scuole gestite da personale cattolico, le quali scuole sono molte per quantità  e per qualità  le migliori del paese. Fu a quel punto che i leader socialisti della generazione precedente, Felipe Gonzalez e Alfonso Guerra, artefici del miracolo politico-economico della Spagna post-franchista, gli affibbiarono il nomignolo di Bambi. Due vecchie volpi come Gonzalez e Guerra avevano voluto riassumere in quel nomignolo un’immagine sarcastica del loro successore: i tratti con ancora qualcosa d’adolescenziale, l’atteggiamento sin troppo sorridente, e soprattutto (visto che Zapatero non aveva mai avuto incarichi ministeriali) la sua inesperienza politica. Ma non avevano capito che l’uomo era molto scaltro. Quella pioggia di riforme che incantava la sinistra radicale europea, per la quale Zapatero era ormai – per usare un’espressione che gronda dai giornali e telegiornali – una “icona”, non costava una sola “peseta”. Costo zero, infatti, per la legge sulla procreazione assistita, per quella sul divorzio-lampo, per il matrimonio tra omosessuali, per la riforma scolastica che emarginava l’insegnamento della religione e preparava un attacco finale contro la scuola privata, da sempre in mano ai cattolici. Una manna di consensi e voti, come diceva il sociologo Victor Pérez-Diaz, che sarebbe piovuta, oltre che dagli elettori socialisti, da quel 20 per cento dell’elettorato formata dagli ex comunisti di Izquierda Unida, dai gruppi no-global e dalla galassia femminista, che nel decennio precedente erano stati quasi sempre assenteisti. Ma su un punto, la mancanza d’esperienza politica del giovane capo del governo, Gonzalez e Guerra avevano ragione a chiamarlo Bambi. Le affannose riforme di Zapatero (che a Madrid molti chiamavano anche «sub-comandante Marcos»), provocarono una scossa violentissima nella società  spagnola. La Chiesa reagì, le piazze delle grandi città  si riempirono di centinaia di migliaia di persone, riemersero dal tragico passato della guerra civile le immagini delle “dos Espaà±as”, la cattolica e quella laica di sinistra, togliendo al governo del Psoe una parte non trascurabile dei consensi che aveva avuto sino allora. Andò così in frantumi quella «civilizzazione della politica», la moderazione, l’equilibrio, la capacità  di compromesso, senza i quali la Spagna non avrebbe conosciuto la straordinaria, miracolosa rinascita che conobbe nei primi vent’anni dopo la morte di Franco. Con la crisi finanziaria del 2008, le cose andarono sempre peggio. Lo scoppio della bolla edilizia, i conflitti sindacali, i timori sulla solidità  delle grandi banche, l’aumento vertiginoso della disoccupazione, i continui declassamenti del rating sul debito. Ma sino a metà  del 2009 Zapatero negò la gravità  della crisi, e questo è stato forse l’errore che ha fatto più infuriare gli spagnoli. La cosa certa è infatti che in soli sette anni, la Spagna non è più la stessa. È vero, i socialisti avevano ormai scarse se non scarsissime possibilità  di vincere le elezioni del 2012. Ma con l’uscita di Zapatero dalla scena, ne hanno adesso qualcuna in più.


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