by Sergio Segio | 13 Aprile 2011 13:00
MILANO – Rosarno non è solo nella piana di Gioa Tauro. In Italia ci sono tante realtà simili a quella della cittadina calabrese dove lo sfruttamento lavorativo dei migranti rischia di far esplodere la situazione. “Un problema che non riguarda solo il Sud e la campagna, ma che si verifica anche al Nord, in regioni insospettabili, ricche e con un buon welfare, come il Trentino, la Toscana, l’Emilia Romagna” commenta Stefania Ragusa, autrice di “Le Rosarno d’Italia”, libro-inchiesta che raccoglie e descrive alcune di queste realtà .
Una delle “Rosarno” meno conosciute è quella delle cave di porfido in val di Cembra, vicino a Trento, dove otto operai su dieci sono stranieri, soprattutto croati, macedoni e magrebini. Con la crisi iniziata negli anni Novanta i posti di lavoro stabili sono passati da 1.800 a meno di mille e gran parte del lavoro è stato esternalizzato. Gli “esterni” però sono gli stessi che prima erano assunti, con la differenza che ora hanno la partita Iva e devono sobbarcarsi gli oneri del lavoro autonomo (niente ferie, malattia, contributi), anche se nei fatti sono completamente dipendenti dal concessionario della cava, che affitta loro i macchinari per la lavorazione e decide il prezzo a cui ricomprare il prodotto. E anche per i dipendenti veri e propri le cose non vanno bene: “L’operaio in realtà viene fatto lavorare a cottimo ma alla fine del mese questo non risulta. Sulla busta paga si scrive indennità variabile e si farà in modo che il costo di ferie, malattie e tredicesima venga assorbito dal salario finale” scrive Stefania Ragusa.
Una situazione che a differenza della vera Rosarno, non sembra destinata a esplodere: i diretti interessati non esprimono volentieri delle critiche, sia per non rischiare di perdere il posto, sia perché di fatto esiste una commistione tra concessionari delle cave e amministratori locali che scoraggia ogni iniziativa. Tanto più che in val di Cembra non c’è ombra di atteggiamenti razzisti né di scontri fra autoctoni e stranieri: “Uno sfruttamento ammantato di buone maniere e quindi più difficile da denunciare e contrastare” commenta l’autrice.
Tutt’altro clima a Prato, dove l’ostilità verso la comunità cinese è visibile ogni giorno per le strade ed è fomentata dalle forze politiche di centro destra, che nel 2009 hanno preso il potere proprio facendo leva sulla lotta alla presunta illegalità delle attività cinesi. È Matteo Ye Hui Ming dell’associazione culturale Prato-Cina che a marzo del 2010 indica la sua città come possibile nuova Rosarno: “Qui potrebbe accadere qualcosa di ancora più drammatico. […] Vivo in Italia da vent’anni e il clima d’intolleranza verso la popolazione cinese è peggiorato anno dopo anno” racconta Matteo all’autrice. Stefania Ragusa sottolinea però come la vera matrice di questa intolleranza sia “non tanto una questione di razzismo, ma di affari: l’odio verso i cinesi ha preso piede quando il tessile pratese ha cominciato ad andare male. Prima tutti erano ben contenti di vendere loro capannoni e tessuti. Lo stesso vale per Imola”.
Nella cittadina emiliana, nel luglio del 2010 è emersa la storia di un cooperativa, la Omega group, che aveva avuto l’appalto per lo smaltimento dei rifiuti dalla Akron spa, azienda specializzata nei servizi ambientali e controllata da capitale pubblico, e che sfruttava i suoi lavoratori, quasi tutti stranieri: niente ferie, tredicesima, malattie e permessi, paghe fra i 600 e i 700 euro al mese, condizioni igieniche pessime, minacce. “Oggi la Omega è stata liquidata -conclude Stefania Ragusa-, ma rimane il fatto che situazioni di sfruttamento possono trovarsi anche in una città come Imola, piena di associazioni, cooperative sociali e sportelli del Comune che rispondono a tutti i bisogni del cittadino”.
Il libro “Le Rosarno d’Italia”, edito da Vallecchi, verrà presentato il 14 aprile alle 18.30 presso lo Spazio Tadini (via Jommelli, 24) a Milano, e uscirà in tutte le librerie il 22 aprile. (Giulia Genovesi)
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