Venti miliardi al Fondo di Tremonti per salvare le imprese dalle scalate estere

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MILANO – Prende forma il Fondo strategico voluto dal ministro Giulio Tremonti per “conservare” l’impresa Italia: avrà  una dotazione di 20 miliardi di euro, sarà  partecipato da Cassa depositi e prestiti e diversi soci pubblici tra cui Fintecna, Inps, Inail e altre casse previdenziali, ma anche da fondi sovrani internazionali. «La visita del ministro in Cina settimana scorsa non è stata solo per tenere una lezione di economia ai quadri del locale partito comunista», rivela un investitore del Fondo, che prevede anche investimenti cinesi. La presenza di capitali stranieri – non solo cinesi – sarebbe un colpo d’ala, sia per la potenza di fuoco, sia per gli obiettivi reddituali. «Se ci sono gli investitori sovrani stranieri, il fondo non potrà  certo essere un carrozzone pubblico che salva aziende decotte: dovrà  investire in società  che sanno guadagnare e remunerare», aggiunge. La lista delle “belle prede” potenziali del resto non manca: oltre che Parmalat, hanno urgenza di denari antiscalata Edison, le banche e il risparmio gestito nazionali. Lunedì c’è il primo passaggio formale, nell’assemblea straordinaria della Cassa depositi e prestiti, che può investire fino a 4 miliardi. Ma dovrà  cambiare lo statuto per ampliare il proprio raggio d’azione e adeguarsi ai nuovi disegni difensivi del sistema. O, come ha detto lo stesso Tremonti, «finalità  non protettive ma conservative. Non c’è una logica politica né un tentativo di distorcere il mercato. Il fondo è un’idea per accompagnare la crescita dimensionale delle imprese nel mondo globale». In seguito alla trasformazione statutaria della Cdp, verrà  l’ora per un secondo decreto del governo dopo quello del 31 marzo, finalizzato a stabilire con certezza i settori di intervento del fondo. Se, come è stato dichiarato, l’impronta ricalca il francese Fsi, lo strumento potrà  investire nei settori legati alla sicurezza e politicamente sensibili. Non è ancora chiaro se il Fondo potrà  investire nelle banche italiane; mentre al momento è improbabile che sia da queste partecipato. Comunque i banchieri, e i loro azionisti delle Fondazioni, sono molto attivi sul fronte. Proprio ieri l’amministratore delegato di Cdp, Giovanni Gorno Tempini, ha incontrato i vertici di Intesa Sanpaolo, Unicredit e Mediobanca per una panoramica sullo stato della cordata italiana che investa su Parmalat per contenderla a Lactalis (che ne ha già  il 29%). L’urgenza per il dossier agroalimentare è tale che la Cassa potrebbe “anticipare” il Fondo. Dietro le quinte preparatorie dell’assemblea Cdp, dove confluiranno tutti le 66 Fondazioni azioniste (con quote pari al 30%) che in neanche due giorni hanno raggruppato tutte le deleghe, c’è un insolito ottimismo. È figlio soprattutto dell’incontro di mercoledì a Roma, dove i primi sette banchieri del paese e i loro principali “fondatori” sono stati ospiti a Via XX Settembre. S’è parlato della necessità  di ricapitalizzare gli istituti di credito, anche per mettere al sicuro l’Italia dalle prossime turbolenze nei paesi periferici d’Europa (facile profezia, vedi ieri il Portogallo). Nella riunione, dice chi c’era, «il clima era quello giusto, stiamo riuscendo a fare sistema tra banche, Fondazioni e autorità , tutti insieme metteremo sotto non solo i francesi ma anche i tedeschi». Il riferimento è ai grandi fondi pubblici Fsi e Kfw, bracci strategici di Parigi e Berlino. Quota 20 miliardi è una dotazione competitiva, per il fondo strategico nascente. Ed è solo un primo passo: il feeling tra il Tesoro e la Grande finanza, inesistente due anni fa quando i “Tremonti bond” furono in gran parte snobbati dalle banche, rasenta l’idillio. Un altro, prossimo segno lo si avrà  con le nuove misure che il governo già  studia, insieme all’Abi, per rafforzare la redditività  delle banche, e che potrebbe riguardare la non deducibilità  delle perdite su crediti, il meccanismo dei tassi usurai, l’eccessiva circolazione del (costoso) contante.


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