Una vita a raccontare le guerre l’ultima missione dei fotoreporter

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LONDRA – «Se la tua foto non è abbastanza buona, vuol dire che non sei andato abbastanza vicino». Era il motto di Robert Capa, forse il più grande fotogiornalista di guerra, caduto su una mina in Vietnam nel 1954 dopo avere raccontato con le sue immagini la Seconda guerra mondiale, la guerra civile spagnola e altri conflitti che hanno insanguinato il Novecento. Tim Hetherington, il fotoreporter inglese ucciso ieri in Libia da un colpo di mortaio delle truppe di Gheddafi, era un altro che andava molto vicino. In Liberia, in Sierra Leone, in Nigeria, in Afghanistan, le sue istantanee e i suoi documentari facevano sentire quasi l’odore della battaglia e ciò che esso porta con sé: paura, violenza, dolore, morte. «Sono nella città  di Misurata. Bombardamento indiscriminato da parte delle forze di Gheddafi. Nessun segno della Nato». È il suo ultimo messaggio affidato a Twitter, poco prima che sulla via Tripoli, l’arteria principale della città , cadessero le bombe del Colonnello. Le bombe che hanno tolto la vita a lui, ferito gravemente il suo collega americano Chris Hondros (dato anch’egli per morto, secondo alcune notizie), ferito in modo meno grave altri due fotografi. Tutti e quattro lì per raccontare il dramma della “Srebrenica libica”, come i media hanno ribattezzato Misurata. Tutti e quattro abbastanza vicini per scattare buone foto, e per rischiare di morire. Nel piccolo mondo dei corrispondenti ed inviati di guerra erano ben conosciuti, Hetherington e Hondros. L’inglese, nato a Liverpool 41 anni fa, si era laureato in letteratura a Oxford, prima di capire che il suo vero amore era la fotografia, la fotografia di guerra. Hetherington aveva trascorso anni in Africa occidentale, documentando rivolte, guerriglie, rivoluzioni, colpi di stato. Dopo la guerra civile in Liberia del 2003, era stato uno dei due soli giornalisti stranieri rimasti a vivere dietro le linee dei ribelli, tanto che l’allora presidente della Liberia, Charles Taylor, emise un ordine di esecuzione nei confronti dei due reporter. Ma Hetherington rimase al suo posto, «abbastanza vicino» al conflitto per poterlo raccontare in due libri ricoperti di premi, «An uncivil war» (Una guerra incivile) nel 2004 e «The devil came on horseback» (Il diavolo venne a cavallo) nel 2007. La guerra lo coinvolse a tal punto da sentire come inutile il proprio mestiere: per un anno abbandonò la macchina fotografica, rimase a lavorare in Liberia per il Sanctions Committee delle Nazioni Unite, la commissione che doveva fare giustizia di tutti gli orrori perpetrati dalle due parti. Poi l’Afghanistan. Dove nel 2007 ha vinto il World Press Award, con l’immagine di un soldato americano che si copre il volto dopo una giornata passata in prima linea nella valle del Korengal. È in quella stessa valle famigerata che Hetherington decide di rimanere per un anno, girando un documentario al seguito di un singolo plotone di soldati Usa. Intitolato «Restrepo» (dal nome, dato a un avamposto, di un medico militare americano ucciso in battaglia), il suo film viene candidato all’Oscar e nel 2010 vince il Gran Premio del Sundance, il festival del cinema organizzato da Robert Redford. È la guerra vera. È «Apocalypse Now» e «Platoon», mescolati insieme, senza attori, anzi con attori veri, che interpretano se stessi. Anche l’americano Chris Hondros ha 41 anni. È di New York. Nel 2004 era stato nominato per il premio Pulitzer nella categoria breaking news: le notizie da prima pagina. Nel 2005 ha vinto il premio Robert Capa, il più prestigioso riconoscimento di fotogiornalismo. Tim lavorava per Vanity Fair. Chris lavora (vogliamo usare il presente, nell’incertezza sulla sua sorte) per Getty Images. Con loro, ieri a Misurata, c’erano un altro americano, Michael Brown, e un francese, di cui non si è saputa subito l’identità . Concorrenti, in teoria. Alleati, nella realtà  del fotoreporter di guerra, perché anche se ciascuno cercava l’immagine perfetta, migliore, unica, sentivano la speciale solidarietà  che viene dal rischiare la vita tutti insieme, e spesso poterla salvare solo aiutandosi, proprio come un plotone di soldati, perché nel giornalismo non c’è mestiere più pericoloso del fotografo di guerra. Qualcuno direbbe che sono stati colpiti perché erano troppo vicini al fronte. Loro pensavano semplicemente di esserci andati «abbastanza vicini» da scattare una buona foto.


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