Una Fukushima accanto ai grattacieli quando New York voleva l’atomo in casa

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NEW YORK – All’alba degli anni ‘60, mentre una piccola cittadina della prefettura di Fukushima, Giappone, stava trasformando la sua vecchia centrale al carbone in un moderno e sicuro impianto nucleare, dall’altra parte dell’Oceano la mitica Con Edison, la compagnia che l’inventore della lampadina aveva fondato per illuminare New York, si era lanciata in un’impresa storica: la costruzione del più potente reattore nucleare del mondo proprio lì, nel cuore della Grande Mela. Sembra una trama alla Michael Crichton, il soggetto di un film di Steven Spielberg. E invece quella della centrale di fronte a Central Park è storia vera. Che riemerge oggi dagli archivi del New York Times accompagnata da quella particella grammaticale che inquieta quanto quelle dell’atomo: «Se». Che cosa ne sarebbe, oggi, di New York, se Harland C. Forbes, il presidente della compagnia, fosse riuscito a convincere il Congresso che le preoccupazioni della gente erano «ridicole», visto che «soltanto una o due persone hanno finora sollevato questioni sugli effetti genetici delle radiazioni»? E chi racconterebbe, oggi, questa storia, se il signor Irving Katz non avesse organizzato la resistenza dei cittadini? Ok, per la verità  il signor Katz era in primo luogo preoccupato «per la caduta del valore dei terreni». Ma da sempre, si sa, qui gira tutto intorno al dollaro. In quei giorni del 1962 la Con Edison aveva già  costruito la centrale di Indian Point, sempre nello stato di New York. Ma «se il nucleare deve competere con l’energia tradizionale» diceva «le centrali devono essere costruite nelle aree che servono». Fare arrivare a Manhattan l’energia da Indian Point avrebbe comportato una spesa da 75 milioni di dollari, il 40 per cento in più del costo del reattore, 175 milioni di dollari. Così si decise di costruire il mostro a Ravenswood, quella striscia di terra del Queens che si affaccia direttamente sull’Hudson. Il vecchio Seymour R. Thaler, il senatore, levò il suo grido di dolore: «La mente dell’uomo non ha ancora inventato un mezzo meccanico che sia davvero a prova di incidente!». Ma la mente dei giovani tecnici della Con Edison ragionava diversamente. Lo “scudo” del reattore, una specie di igloo alto 50 metri e spesso 20 centimetri, incapsulato in un altro strato di cemento, avrebbe certamente resistito a una fusione accidentale: e perfino allo schianto di un jet. È lo stesso tipo di coperchio che in quel periodo i giapponesi progettavano per Fukushima. E non è agghiacciante quell’ipotesi di schianto aereo? Due mesi dopo l’orrore delle Torri Gemelle, il 12 novembre 2001, un jet dell’American Airlines si schiantò proprio sulle case del Queens: 265 morti. E che invitante bersaglio sarebbe stata la centrale di New York per Bin Laden. Fu ancora una volta il business a salvare Manhattan. Fatti due conti, l’acquisto fuori programma di un impianto nel Canada si dimostrò un affare migliore. Ma non per questo la Con Edison rinunciò all’incubo di nuclearizzare la Grande Mela. Nel 1968 propose nientemeno che una centrale nel sottosuolo dell’isola che allora si chiamava, manco a dirlo, del Benessere e oggi è Roosevelt Island: sempre di fronte a Manhattan. Alla fine saltò anche quel progetto. Ma i tifosi del progresso a ogni costo erano comunque stati accontentati. Alla faccia del signor Katz, quello che lamentava la caduta di valore dei terreni, sul luogo dove doveva sorgere il reattore fu costruita, nel 1965, una centrale elettrica. Anche qui manie di grandezza: era la più potente del mondo. E ancora oggi la Big Allis, com’è soprannominata, serve il 25 per cento dell’energia di New York. I turisti che dall’aeroporto J. F. Kennedy arrivano in taxi se la ritrovano sulla destra, salendo sul ponte di Queensborough. Pensate cosa sarebbe stato: volare a New York e ritrovarsi una Fukushima tra i grattacieli.


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