Un impegno di tutti a ospitare i migranti

by Editore | 7 Aprile 2011 6:32

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Morti diverse, ma nello stesso unico grande mare dei migranti. Sul “Sirio” e sulla “Principessa Mafalda” c’erano italiani, nostri connazionali in cerca di un futuro diverso altrove. I cantastorie che animavano i mercati di paese ci hanno tramandato le loro vicende attraverso canti popolari che fino a pochi anni fa si sentivano ancora nelle osterie: «Siamo partiti da nostri Paesi per andare in America lontana/ Trenta giorni di nave a vapore/ Fino in America siam arriva’/ Abbiam trovato né paglia né fieno/ Abbiam dormito sul nudo terreno/ Come le bestie abbiam riposa’». Si intitola L’America allegra e bella, la chiamano l’America sorella. Tante, troppe analogie con i tunisini che gridano «Italia! Libertà !», che affondano con i barconi, che sono ammassati come bestie e che nessuno vuole. Ormai esiste la certezza che la politica nei prossimi anni si troverà  in continua emergenza sulle migrazioni, perché come ha scritto Giorgio Bocca è utopistico pensare di fermare queste ondate, men che meno con i trattati. Si possono alleviare lavorando perché queste persone vivano in modo dignitoso nel loro Paesi, ma dovremmo aiutare l’Africa a diventare un po’ più ricca. Nessuno dimentichi che nell’indifferenza più totale da parte della comunità  internazionale laggiù si stanno espropriando milioni di ettari (oltre 50) di terra fertile con la connivenza dei governi locali. Succede in Etiopia, Ghana, Mali, Sudan: si danno in concessione terre per 20, 30, anche 90 anni a Paesi come la Cina o la Corea per produrre derrate, soprattutto biocarburanti. La terra è il bene più prezioso che hanno gli africani, la chiave per una loro rinascita. Invece s’intensifica questo fenomeno del “land grabbing”, li abbiamo costretti a monocolture di cotone, caffè e cacao e poi si originano speculazioni sui prezzi del cibo che è inevitabile che conducano alla disperazione e alla fuga. Non è niente di nuovo, perché anche i piemontesi, i veneti, i molisani, i siciliani che abbandonavano le loro campagne per salire su navi come la “Sirio” o la “Principessa Mafalda” lo facevano per fame. E le loro rimesse in Patria sono state fondamentali per costruire quel benessere in cui viviamo oggi. A parole diciamo di voler aiutare gli africani, ma nei fatti li costringiamo a scappare. A questo punto, davanti a una situazione che sembra non avere vie d’uscita e produce morti e disperati, mi sembra necessaria una grande mobilitazione. Mi rivolgo in particolare alla sinistra e ai suoi valori ispiratori di solidarietà  e di fraternità  (la sorella povera di liberté ed egalité). Ma non parlo solo ai partiti, parlo di una mobilitazione che metta in atto forme di accoglienza diffusa e armonica sul territorio, rafforzando l’esempio della Regione Toscana. C’è una straordinaria rete associativa e di volontariato che può dare un vero ausilio alle nostre amministrazioni regionali, di qualsiasi colore esse siano. Sarebbe lo scatto d’umanità  di una società  civile che, tramite associazioni e movimenti, con i suoi organi più strutturati come i sindacati o le organizzazioni degli agricoltori, può portare a un’etica dell’esempio, che sappia parlare alle coscienze. Ci potrebbero anche essere forme d’impegno individuale in grado di recuperare quella diaspora silenziosa di militanti e persone intelligenti deluse dalla politica. In fondo se ogni porzione di territorio si prendesse in carico alcune di queste persone, si raggiungerebbero numeri affrontabili senza troppo sacrificio. Se riuscissimo a mettere in moto questa grande operazione politica, in grado di parlare alla gente e farla uscire dalla paura del diverso, dalla paura che ci attanaglia a ogni angolo, daremmo l’esempio più grande che possiamo dare. Coscienti che tanta della nostra economia vive del loro lavoro, come i macedoni e rumeni che coltivano le vigne del Barolo e del Barbaresco, le migliaia d’indiani che curano le bestie nelle stalle del Parmigiano Reggiano, gli extracomunitari che stanno negli alpeggi in Val d’Aosta o chini nei campi del Meridione a raccogliere frutta e verdura. Lavori che gli italiani non vogliono più fare. Nobilitiamoli, diamo un segnale, provochiamo una ventata di aria pura in questo momento politico così deprimente. Scateniamo una reazione contro la paura e a favore di popoli che vivono le stesse disumane condizioni dei nostri nonni e bisnonni. Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi dei migranti italiani verso Ellis Island a inizio ‘900, scriveva: «Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe, e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come i poveretti alle porte dei conventi. È un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante». www.slowfood.it

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