Tre mesi fa la rivolta ora i giovani accusano “Traditi dai militari”

by Editore | 21 Aprile 2011 5:55

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IL CAIRO – Sulla rotonda di Piazza Tahrir hanno rifatto il prato. Soldati in divisa cachi e basco rosso vigilano perché nessuno calpesti l’erba appena rinnovata. Quello che per settimane è stato l’epicentro della rivoluzione deve essere quanto prima restituito alle comitive dei turisti che tardano a venire, alla folla distratta dei passanti, in una parola, alla normalità . Ma che normalità  è mai quella di un paese in cui i protagonisti della rivolta, come il blogger Maikel Nabil, vengono processati e condannati in tempo record dai tribunali miliari, mentre i gerarchi del regime, a cominciare da Mubarak, vengono inquisiti da magistrati civili con tutte le garanzie del caso? Per questo c’è chi già  parla di rivoluzione tradita, o, come l’attivista per i diritti umani Mona Seif, di «controrivoluzione».

Questa precoce disillusione, questi timori hanno un indirizzo preciso: il Consiglio Supremo delle Forze Armate che si è assunto il compito di guidare la transizione. La “giunta”, come tutti la chiamano, ha mostrato di sapersi abilmente destreggiare tra le pressioni della piazza (che chiedeva l’arresto di Mubarak) e la conservazione dei propri interessi, che sono imponenti e rinviano a vaste complicità  col vecchio regime. Ma quando, lontano dai riflettori, si sono ritrovati faccia a faccia con i protagonisti della rivolta, allora s’è vista chiaramente l’inclinazione dei militari ad usare i vecchi metodi, le maniere forti e sbrigative.
Maikel Nabil non era un blogger qualsiasi, uno dei tanti che hanno costruito la “rete” che ha portato all’insurrezione. Maikel, 25 anni, una laurea in veterinaria lasciata in cornice per far posto alla passione civile, famiglia copta, ma di formazione laica, era, per la polizia, quello che si dice un pericoloso rompiballe. Nel 2009 aveva osato sfidare il militarismo imperante proponendosi come il primo obiettore di coscienza nella storia egiziana. Naturalmente era finito in carcere.
Ma, oltre che del suo pacifismo, gli archivi del Mukhabarat conservavano traccia di un’altra sua idea considerata “anomala”: la sincera ammirazione che Maikel manifestava per la democrazia israeliana. Un idea che una volta gli aveva fatto dire: «Non potrei mai puntare un arma contro un giovane come me solo perché israeliano». Bestemmia.
«Io sono convinto che Maikel è stato arrestato e condannato a tre anni anche, se non principalmente, per tutto quello che ha fatto, detto e scritto prima della rivoluzione», mi dice Maged Maher, uno psicologo trentenne, nella sede del Movimento per la Protezione della Rivoluzione: un nome che è un altro indizio dei timori affioranti tra i giovani attivisti di Piazza Tahrir, sotto lo sguardo ansioso di Mark, il fratello diciottenne di Maikel.
Tuttavia, è dal suo blog che i militari hanno preso lo spunto per arrestarlo, il 28 marzo scorso, e condannarlo, 13 giorni dopo, a tre anni di prigione dopo un processo senza testimoni a discolpa e senza avvocati presenti alla lettura della sentenza. Reato contestato: insulti alle Forze Armate e diffusione di notizie false.
In realtà , in quel suo ultimo post, Maikel Nabil aveva presentato una sua inchiesta accuratissima, corredata da decine di testimonianze, sulle torture, i pestaggi, gli arresti ingiustificati, e le molestie sessuali consumati contro ragazzi e ragazze di Piazza Tahrir dalle forze dell’ordine. Un dossier che si proponeva di dimostrare come l’esercito, contrariamente a quanto veniva strombazzato dalla propaganda ufficiale, non soltanto non aveva mai protetto i dimostranti, ma aveva cercato di reprimerli, anche dopo le dimissioni di Mubarak. Un reato d’opinione, dunque. 
Ma, dice Mona Seif, una giovane oncologa di 25 anni, che con l’organizzazione da lei fondata (“No ai tribunali militari contro i civili”) si batte per affermare il principio del “giudice naturale”, «criticare l’esercito è ancora pericoloso, perché una grossa parte delle forze armate è rimasta legata al vecchio regime da cui ha ricevuto enormi benefici». Da qui il la percezione primitiva da parte dell’esercito che i giovani rivoluzionari siano in sostanza degli eversori, contro i quali applicare il codice penale militare.
È il caso di Amr al Baheri, 32 anni, appena tornato dalla Francia, dove era emigrato in cerca di lavoro, attratto quel 25 gennaio dalle fiumane che si riversavano a Piazza Tahir, qualcosa che in vita sua non aveva mai visto. La notte stessa di quella sua prima manifestazione di protesta, Amr era stato fermato, picchiato selvaggiamente, imprigionato e condannato a cinque anni, dopo un processo sommario svoltosi nelle cucine della caserma.
Da allora almeno 7.000 dimostranti, alcuni accusati di reati comuni, sono passati attraverso le stesse forche caudine. Con alcuni casi clamorosi, come i 190 giovani rinchiusi all’interno del Museo Nazionale per essere “interrogati”, fra cui 19 ragazze costrette a spogliarsi e a passare un “test della verginità ” sotto l’obiettivo di una telecamera.
Ora, però, davanti alla mobilitazione di organizzazioni come quella fondata da Mona Seif il Consiglio Supremo delle Forze armate ha annunciato che i processi, o almeno alcuni processi, saranno riesaminati. Ma è un segnale di sfiducia quello che cogliamo in un angolo di Piazza Tahrir dove, in un normale lunedì di tregua, uno sparuto gruppo di manifestanti chiede a gran voce l’allontanamento del capo della “giunta”, il feldmaresciallo e ministro della Difesa Mohamed Hussein Tantawi, coetaneo, amico e sodale di Mubarak. Eppure ancora in sella.

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