Thyssen, il giudice di Corte. “Chiedo silenzio alla lettura”
“Chiedo a tutti che, questa sera alla lettura della sentenza, sia tenuto un rigoroso silenzio. Ricordo che siamo in un’aula di Tribunale e che non verrà tollerata alcuna intemperanza da parte di chiunque”: lo ha detto la presidente della Corte di Assise di Torino, Maria Iannibelli, prima di riunire il collegio in camera di consiglio per decidere la sentenza del processo per l’incendio alla Thyssengrupp, nel quale morirono sette operai. Il presidente della Corte si è rivolto al pubblico che stamani ha assistito all’ultima udienza del processo, che è durata pochi minuti.
E’ stato l’ultimo atto di un processo durato due anni e tre mesi, racchiusi in 87 udienze, per arrivare a un verdetto che potrebbe segnare la storia del diritto, oltre che di una città . La ferita inferta dalla tragedia della Thyssenkrupp, il 6 dicembre 2007, non ha solamente cambiato la sensibilità nazionale nei confronti delle morti bianche, ma ha permesso alla procura di contestare per la prima volta un’accusa capace di scuotere le coscienze degli imprenditori: l’omicidio volontario con dolo eventuale. E’ su questo reato (contestato solo all’amministratore delegato Harald Espenhahn ma che ha trascinato anche tutti gli altri imputati davanti a una corte d’assise con tanto di giuria popolare), che si è concentrata l’attenzione maggiore da parte dell’accusa e della difesa fin dall’udienza preliminare.
La decisione. Solo il verdetto dei giudici stabilirà se gli sforzi della procura hanno avuto la meglio sulla consuetudine del diritto, e se quella della Thyssen diventerà una sentenza pilota che farà scuola. Per i pm sono infatti state raccolte prove certe contro l’ad della Thyssen che portano a ritenere che Espenhahn si sia “rappresentato”, e “abbia accettato” il rischio che si potesse verificare un infortunio mortale, ma ciò nonostante abbia preferito una “logica del risparmio economico” rispetto alla tutela della sicurezza in uno stabilimento in fase di dismissione e abbandonato a se stesso. Una fabbrica carente sia in pulizia, che in manutenzione, eppure ancora sottoposta al torchio stressante della produzione, nonostante tutte le figure di riferimento, ovvero gli operai più specializzati, fossero ormai andati via da corso Regina.
Le richieste di condanna. Sedici anni e mezzo per Harald Espenhahn, accusato di omicidio volontario con dolo eventuale, 3 anni e 6 mesi per i quattro dirigenti Marco Pucci, Gerald Priegnitz, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri, e 9 anni per Daniele Moroni, tutti accusati di omicidio colposo e omissione di cautele antinfortunistiche. Sono state queste le richieste dei pm raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso al termine di una lunga requisitoria (durata una decina di udienze) scritta e proiettata in aula con slides. Ma è anche verso l’azienda Thyssen, (intesa come ente giuridico) per la sua responsabilità amministrativa, che l’accusa ha sfoderato l’esemplarità del massimo delle pene: “Un milione e mezzo di euro di sanzione pecuniaria”, cui si aggiungono “800 mila euro di confisca” e misure quali “il divieto di pubblicità per un anno” e “l’esclusione da contributi pubblici, agevolazioni e contributi e revoca di quelli già concessi”.
Le richieste delle parti civili. Sono state pesanti anche le richieste delle parti civili: il Comune di Torino e la Provincia hanno chiesto un milione e mezzo di euro di risarcimento per i danni d’immagine e all’ambiente, mentre la Regione (anche per danni patrimoniali) ha quantificato sei milioni di euro: simbolicamente un euro e mezzo a testa per ogni piemontese. I sindacati hanno optato per 150 mila euro ciascuno.
La Thyssen aveva già risarcito con 12 milioni di euro (una cifra record) i parenti delle vittime, ma al processo si sono costituiti altri familiari e diversi operai che hanno chiesto danni per centinaia di migliaia di euro. In particolare per un gruppo di soccorritori sono stati chiesti risarcimenti da 260 a 420 mila euro perché la loro vita è rimasta sconvolta da quella notte: choccati come reduci del Vietnam, hanno incubi ricorrenti, attacchi di panico e devono ricorrere a psicofarmaci.
La difesa. Gli avvocati difensori degli imputati (Cesare Zaccone, Ezio Audisio, Maurizio Anglesio, Franco Coppi, Andrea e Nicoletta Garaventa, Paolo Sommella) si sono divisi per temi l’arringa. Quello della Thyssen è stato per la difesa “un processo politico” in cui la morte dei sette operai è stata “strumentalizzata”, e la procura e i media si sono lanciati in una guerra “al capitalismo”. Solo perché è stata processata “un’azienda straniera”, una multinazionale che ha rilevato una fabbrica italiana, che stava “pure chiudendo, seppur con tutte le garanzie per i lavoratori”. L’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale è “agghiacciante”, “frutto solo di una suggestione della procura”. Audisio, con un’arringa elegante e sabauda, ha poi cercato di convincere i giudici dell’innocenza di Espenhahn senza accusare direttamente, ma implicitamente e per deduzione. “Non diamo la colpa agli operai”, ha ad esempio ribadito più volte facendo tuttavia intuire che il rogo sarebbe scaturito per alcuni errori umani.
Gli operai. “Gli operai non hanno sbagliato – ha detto – ma sono stati indotti in errore da alcune circostanze sfavorevoli e da un imperfetto passaggio di consegne da parte di chi li precedeva”. Per la difesa passarono ben undici minuti prima che gli operai si accorgessero dell’incendio: “Tutti e otto si precipitarono con gli estintori, mentre il capoturno Rocco Marzo avrebbe dovuto chiamare il responsabile dell’emergenza: non lo fece, e non sapremo mai perché”. Tra gli altri “sbagli” il non aver fermato la linea premendo il pulsante di emergenza o tolto l’energia elettrica alla linea.
Riguardo Espenhahn “non ebbe colpe”, non solo perché non poteva rappresentarsi la morte degli operai, ma “si è solo battuto per salvare un’azienda italiana, scegliendo di difendere gli investimenti. Doveva per forza trasferire la produzione a Terni”
La velocità e le tappe. Fin da subito l’inchiesta sulla Thyssen è stata caratterizzata dalla rapidità delle indagini. Guariniello del resto aveva sempre dichiarato l’intenzione di arrivare velocemente a ottenere una pronta risposta della giustizia per un fatto tanto grave: in meno di sei mesi i pm avevano concluso le indagini, il 9 maggio 2008 c’erano già le richieste di rinvio a giudizio. Il 17 novembre dello stesso anno, a meno di un anno dalla tragedia, il gup Francesco Gianfrotta concludeva l’udienza preliminare: l’accusa di omicidio volontario aveva retto al primo vaglio di un giudice. Il processo era cominciato il 15 gennaio 2009: la corte aveva tenuto il ritmo e il calendario, spesso celebrando anche due udienze a settimana.
Segno di un’accelerata è stato il fatto che, terminato il dibattimento, i giudici abbiano scelto di bloccare le udienze, di valutare ogni elemento raccolto anticipando la camera di consiglio. Per arrivare a una decisione così importante la giuria popolare, presieduta dal giudice Maria Iannibelli e, a latere Paola Dezani, ha quindi già fatto più di un mese di pre-camera. Il verdetto finale è atteso il giorno dell’ultima udienza, il 15 aprile, già in serata.
I colpi di scena e di teatro. Il processo è stato caratterizzato da una serie di colpi di scena, più da parte dell’accusa che della difesa, anche perché il pm Raffaele Guariniello e le due sostitute Laura Longo e Francesca Traverso non hanno mai smesso di indagare sulla Thyssen nemmeno a processo iniziato. Si è appreso in aula del filone d’inchiesta che era stato aperto nei confronti di chi doveva controllare lo stabilimento: 5 ispettori dell’Asl avrebbero aiutato la Thyssen preannunciando i controlli e con prescrizioni non tempestive. Ma il pm Guariniello nell’udienza del 18 novembre 2009 ha lasciato tutti di stucco quando, nell’interrogare un ex operaio della Thyssenkrupp gli ha chiesto se avesse mai parlato con qualcuno del processo. I pm avevano infatti scoperto che due dirigenti dell’acciaieria avevano avvicinato alcuni testimoni per “pilotare” le loro deposizioni. Era nata così una nuova indagine per falsa testimonianza con tanto di intercettazioni e pedinamenti: otto persone sono quindi state indagate, e quattro ex dipendenti “scoperti” hanno poi scelto di tornare in aula per ritrattare le loro deposizioni.
Tra i colpi di teatro dell’accusa merita un cenno quello sulla conoscenza dell’italiano di Espenhahn: proprio durante le prime udienze la difesa aveva cercato di far saltare il processo sostenendo che parte degli atti non era stato tradotto in tedesco, e che l’ad non parlasse italiano, pur conoscendo alcune parole, bensì solo in inglese. Armata di proiettore e maxi schermo, in aula la procura replicò mandando in onda una vecchia intervista rilasciata a un tg italiano in cui l’amministratore delegato con un forte accento tedesco ma in perfetto e fluente italiano magnificava la sua azienda.
La dinamica dell’incendio. Per essere più efficace la procura aveva poi scelto di riprodurre in aula tutta la dinamica dell’incendio utilizzando un’animazione grafica al computer: come in una sorta di videogame è stato ricostruito l’incendio sulla linea 5, gli operai che tentano di spegnerlo con manichette ed estintori vuoti, e il “flash fire”, ovvero l’esplosione di una nuvola di fuoco e olio incandescente che avvolge i sette operai, mentre Antonio Boccuzzi riesce a salvarsi solo perché riparato dietro un muletto. La sua testimonianza insieme a quella dei soccorritori restano invece il momento più drammatico di tutto il processo: le urla delle vittime, “aiuto, non voglio morire!”, l’odore, le facce e i corpi dilanianti dal fuoco dei sette operai riecheggiano in aula tramite i racconti di chi la notte del sei dicembre 2007 l’ha vissuta davvero.
Fuori e dentro l’aula, lacrime e dolore.Hanno presenziato ad ogni udienza, con le loro magliette nere e le foto di figli o mariti morti nel fuoco, avvolti in un dolore incontenibile: hanno voluto assistere p. La pazienza della presidente della Corte è stata spesso messa a dura prova di fronte alle loro esternazioni in aula: più volte si sono lasciati andare a commenti sgradevoli riferiti agli imputati e ai loro avvocati, rischiando di essere portati fuori dall’aula. Ingiurie e anatemi che sono stati ricordati dai difensori degli imputati anche nella loro arringa. “Assassini”, “brucerete all’inferno”, “dovete dargli l’ergastolo” sono state alcune delle espressioni più frequenti. Fuori dai cancelli hanno sempre appeso striscioni con le foto delle vittime, accanto a quelli dei sindacati e del collettivo comunista che ha spesso distribuito volantini “contro i padroni stragisti”.
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