Sulla nave che porta le armi ai ribelli della città -martire

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MISURATA – Entriamo in porto a luci spente, con il motore al minimo. Perfino gli ordini di attracco vengono impartiti sottovoce. Sono le 3 del mattino. Sul molo spunta una piccola folla di spaventapasseri con lo sguardo allucinato. Sono lavoratori migranti accampati da due mesi a Misurata, in attesa di lasciare la Libia in fiamme. Un giovane patriota salta a terra e allontana questi assonnati disgraziati per dare inizio alle operazioni di scarico. Dalla stiva del motoscafo che da Bengasi ci ha portati fin qui, gli uomini dell’equipaggio cominciano a estrarre pesanti casse di armi e munizioni destinate ai ribelli della sola città  della Tripolitania che ancora resiste all’assedio delle truppe lealiste. «Sbrigatevi, ché tra un’ora e mezzo dobbiamo ripartire», bisbiglia il comandante dal ponte della barca. Un’ora e mezzo, dunque. È il tempo a disposizione per una visita notturna della “Sarajevo libica”, così è stata chiamata la città  simbolo della rivolta che Gheddafi cannoneggia da sette settimane con un crescendo di violenza sfociato, pochi giorni fa, nell’uso delle terribili e vietatissime bombe a grappolo. La nostra guida si chiama Suleiman, ha 24 anni e prima di arruolarsi tra i ribelli studiava economia a Bengasi. È fresco e bendisposto, sebbene durante le oltre ventisei ore di traversata abbia ininterrottamente vomitato. «Andiamo a casa di amici», dice laconico, sedendosi al volante di un vecchio fuoristrada. Servirebbe una telecamera per raccontare la distruzione che troviamo appena usciti dal porto. Non c’è caseggiato che non sia sforacchiato da proiettili di vario calibro, non c’è edificio che non abbia almeno un muro sfondato da un razzo. Passiamo accanto a un porticato le cui colonne sono così sbocconcellate dalle pallottole che ci si chiede come possa stare ancora in piedi. La carreggiata è spesso ostruita da macerie, armadi caduti da chissà  dove, macchine incendiate. Molte strade sono chiuse da barricate di fortuna approntate con blocchi di cemento o mucchi di sabbia. Di colpo, Suleiman spinge sull’acceleratore della jeep. Poi, chinandosi sul volante dice: «In fondo a quella strada sono appostati i cecchini del Colonnello, quindi faccia come me, abbassi la testa, perché quelli non dormono mai». Arriviamo finalmente a destinazione, dove ci aspetta una mezza dozzina di persone. Vista l’ora antelucana, molte hanno gli occhi gonfi di sonno, ma ci tengono a raccontare, a far sapere ciò che patiscono. Le loro testimonianze dimostrano come per i suoi trecentomila abitanti Misurata sia diventata una prigione a cielo aperto, in cui le prime vittime sono civili. «Nel mio quartiere giovedì scorso un razzo ha ucciso otto persone in coda per un pezzo di pane», racconta Saed, un ingegnere cinquantenne, grigio e macilento. «Adesso, per chi come me è rimasto intrappolato in questa maledetta città , comincia a mancare il cibo, non c’è elettricità  e scarseggia perfino l’acqua potabile. Senza parlare dei rischi di beccarti una pallottola appena esci di casa». Mahmoud, 38 anni, commerciante, scoppia a piangere prima di finire il suo racconto. Il suo piccolo Ali è stato colpito al petto dalla scheggia di una granata. «Mi è morto in braccio, mentre lo portavo in ospedale», dice l’uomo. Salem, professore di matematica, parla con un filo di voce: «Sabato scorso, le truppe del Colonnello ci hanno sparato contro cento razzi Grad. Nelle ultime settimane ho visto uomini decapitati o tagliati in due dall’artiglieria nemica. La mia casa è stata distrutta e la mia famiglia è terrorizzata. A questo punto, non m’importa di morire. Prima, però, voglio vedere Gheddafi impiccato». Tutti ci chiedono poi della Nato, invocano i raid dei suoi caccia, si stupiscono che non faccia di più. Non comprendono perché non abbia ancora sbaragliato le truppe del tiranno, che a Misurata hanno già  ucciso più di seicento persone. «E’ vero, i lealisti nascondono i loro carri armati agli incroci di strade densamente popolate per evitare che siano colpiti dalle forze dell’Alleanza. Ma è altrettanto vero che se il mandato della Nato è quello proteggere la popolazione civile, ebbene qui da noi ha fallito in pieno», sbotta Saed. Due assordanti colpi di mortaio svegliano la città . Si sentono poi diverse raffiche di mitra, seguite da tre o quattro esplosioni sorde come il suono di una grancassa. È ora di tornare. «Seguiremo il percorso più sicuro, quello delle ambulanze», dice lo studente. «Sono stati abbandonati interi quartieri e ormai si combatte casa per casa. L’artiglieria del Colonnello martella la popolazione sparando ovunque. Il problema sono le forze in campo: noi siamo circa 400, loro più del doppio». Al porto, la tendopoli dove vivono migliaia di migranti esala un tanfo orrendo che la brezza marina non riesce a disperdere. Pochi giorni fa, spiega Suleiman, c’è stata una rivolta: «Avevano fame e hanno distrutto gli uffici della capitaneria». Comincia ad albeggiare, dobbiamo muoverci. Le truppe di Gheddafi hanno finora risparmiato le poche navi umanitarie venute a caricare profughi o feriti, ma affonderebbero volentieri le barche che portano armi ai loro nemici. A bordo, siamo meno numerosi che all’andata, perché alcuni si sono fermati a dar man forte alla resistenza. Intanto, i combattimenti hanno ripreso con intensità . Visti dal mare, non fosse per le colonne di fumo che si alzano all’orizzonte, sembrerebbero fuochi d’artificio.


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