by Sergio Segio | 20 Aprile 2011 18:02
ROMA – Una spesa pubblica che da oggi diventa navigabile per tutti: regione per regione e per ogni singolo settore di spesa. I bilanci di tutti gli 8094 comuni italiani che in un futuro prossimo saranno consultabili online con i voti agli amministratori migliori e alle città più virtuose. E’ la rotta degli open data “all’italiana”: i dati pubblici liberi, prodotti o in possesso della pubblica amministrazione, che vengono condivisi per favorirne il riutilizzo senza restrizioni di alcun tipo.
Stati generali. La definizione un po’ didascalica giova a liberare il campo dai fraintendimenti: dai dati privati (quelli per intenderci ricavabili dai social network) o che arrivano per vie traverse (vedi Wikileaks). E i soggetti che si sono dati appuntamento per gli stati generali dei dati aperti nel nostro paese, nella giornata “La politica della trasparenza e dei dati aperti”, organizzata da “Agorà Digitale”, “Linked Open Data” e Radicali Italiani, alla precisione ci tengono.
Il progetto OpenSpending. La concretezza prima di tutto allora. Chi ha lavorato al progetto presentato oggi lo ha definito “un ponte verso il resto del mondo”. In realtà si tratta di un passo piccolo rapportato al panorama dei dati aperti nel resto del mondo (Usa e Regno Unito in testa, ma anche Australia e Canada), ma che lascia almeno intravedere le potenzialità degli strumenti di cui stiamo parlando. Si tratta del progetto Open Spending dell’Open Knowledge Foundation, una piattaforma che mira rendere più semplice per il pubblico esplorare e comprendere i bilanci. A questo indirizzo da oggi è in linea la visualizzazione nella spesa pubblica italiana negli anni che vanno dal 1996 al 2008.
Conti pubblici navigabili. I dati sono quelli dei Conti pubblici territoriali forniti dal Dipartimento del Tesoro. “L’utente”, spiega Stefano Costa (uno degli sviluppatori), può andare a confrontare il livello complessivo della spesa tra le diverse regioni, considerando amministrazione centrale e locale. La ripartizione minima è per anni e per settori e consente confronti cronologici”. In altre parole, ciascun cittadino può sapere quanto è stato speso nella propria regione durante un determinato anno per l’istruzione, la cultura o qualsiasi altro settore. “E’ chiaro”, continua Costa, “che con questi primi dati le operazioni possibili sono ancora limitate. Ma a breve prevediamo di riuscire a incrociare questo dataset con quelli dell’Unione Europea, già sulla piattaforma, soffermandoci, per esempio, sui finanziamenti che arrivano nei vari paesi. Insomma vedere chi dà i soldi e chi li riceve”. Quella possibilità di scoprire collegamenti e utilizzare i dati in modi inattesi che nel campo dei dati aperti si chiama “serendipity”.
Bilanci comunali aperti. L’altro progetto su cui la comunità open data punta molto è stato chiamato “Open Bilancio” ed è nato dalla collaborazione tra due soggetti attivi da tempo nel settore: “OpenPolis” (autore di OpenParlamento) e “Linked Open Data”. “Si tratta”, spiega Vittorio Alvino di OpenPolis, “di aprire i bilanci degli 8094 Comuni italiani dal 1998 ad oggi e di connetterli ad altri dati pubblici in modo da permettere un confronto tra singoli Comuni attraverso un filtro per singole voci di bilancio”. Le possibilità anche in questo caso sono illuminanti: “I dati di bilancio potrebbero essere messi a confronto”, continua Alvino, “con i responsabili politici e amministrativi (sindaci in primis), permettendo di stilare non solo una graduatoria della città ideale ma un rating di sindaci e amministrazioni, creando degli indicatori di efficienza”. I tempi del progetto in questo caso sono più lunghi: i primi dati dovrebbero essere disponibili entro la fine dell’anno.
Manca una politica organica. Ma qual è lo stato del movimento “open data” italiano? A detta degli stessi addetti ai lavori si vive un momento di “ebollizione”. Le molte iniziative che si sviluppano, spiegano un po’ tutti gli oratori, “vengono quasi tutte dal basso, da organizzazioni no profit. “Tranne rare e lodevoli eccezioni”, spiega Ernesto Belisario di “Open Government”, “non esiste una politica organica di open data in Italia. Ognuno fa il suo svincolo. Il carburante però manca, perché i dati spesso non ci sono”. Altra nota, a livello locale si registrano aperture maggiori rispetto alle resistenze che frenano il movimento soprattutto a livello centrale. Eppure i dati aperti avrebbero anche risvolti economici da non sottovalutare, se è vero, spiegano alcuni dei presenti, che il progetto Mepsir dell’Unione Europea, nel 2006 aveva quantificato in 27 miliardi di euro il valore del settore.
La vera trasparenza è lontana. A dispetto dell’interesse che arriva da soggetti istituzionali come l’Istat, che con il suo presidente, Enrico Giovannini, annuncia un nuovo sito internet come prototipo di una “statistica 2.0, con le persone al centro”, una vera trasparenza soprattutto nel settore della pubblica amministrazione sembra ancora lontana. Mentre il presidente dell’Autorità per la protezione dei Dati personali, Francesco Pizzetti pone l’accento sul rischio di violare i dati sensibili e il diritto all’oblio, sono le parole di Antonio Martone, presidente della Civit (la Commissione per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche) a restituire il quadro meno incoraggiante. “Gli strumenti normativi (la legge 15/2009 e il dlgs 150) darebbero già molti strumenti necessari”, spiega Martone, ma a un anno dall’insediamento della Commissione i problemi restano.
Problemi nostri e modelli virtuosi. L’applicazione della legge, ad esempio non è automatica per Regioni, province e Comuni, quindi ne risente la pubblicazione dei curricula e delle retribuzioni di chi ha incarichi di indirizzo politico amministrativo. A volte ammette Martone sembrerebbe “una battaglia contro i mulini a vento”, se è vero secondo i dati, da lui stesso comunicati, che solo “il 50% dei Ministeri e il 42% degli enti pubblici non economici nazionali si sono adeguati alle linee guida in materia di trasparenza”. Ci vuole tempo, è il messaggio della Commissione, che stima in 5 anni il tempo per avere dei risultati. Sarà anche così, ma quando al microfono si alternano Jonathan Gray, dell’Open Knowledge Fountation, Simon Rogers, responsabile del Datastore di The Guardian e Ben Brandzel, cofondatore di Avaaz.org , una banale ricevuta delle spese di Tony Blair dà il senso di tutta la strada che dovrà ancora fare il movimento dei dati aperti in Italia.
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