Siria, l’appello di Dera’a al mondo “Qui è un massacro, salvateci”

by Editore | 27 Aprile 2011 7:13

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RAMTHA (frontiera giordano-siriana) – «E’ un massacro! E’ un massacro», urla disperato Massalmeh dopo aver contattato la sua famiglia che vive a Dera’a. Le notizie che ha ricevuto lo fanno cadere in ginocchio in mezzo alla strada, il telefonino finisce in terra, trema e piange disperato. «Mi hanno detto che in città  ci sono stati duecento morti, e fra loro molti della nostra famiglia. Li stanno massacrando», urla disperato questo commerciante siriano che solo due giorni fa ha passato la frontiera per venire a fare acquisti in Giordania. Le voci dall’inferno di Dera’a arrivano col telefonino, sono in tanti nella città  sotto la morsa dell’esercito di Assad ad avere schede telefoniche giordane, del resto la città  martire della rivolta è una manciata di chilometri oltre la sbarra di questa frontiera chiusa per ordine di Damasco. Da due giorni a Dera’a spadroneggiano le truppe speciali di Damasco, migliaia di soldati sono per le strade appoggiati dai carri armati, i cecchini appostati sui tetti, i rastrellamenti si susseguono casa per casa. Dall’alba di lunedì le strade di questa cittadina di meno di centomila abitanti sono un campo di battaglia. A Ramtha qualcuno cerca di confortare Massalmeh, altri prendono il telefonino e cercano di raggiungere parenti e amici dall’altra parte della frontiera. «Spari e esplosioni continuano da due giorni. I tank girano per le strade, i militari delle forze speciali vengono casa per casa e si portano via gli uomini, qualcuno è stato ucciso a freddo sul marciapiede», urla nel telefono Abdallah, che chiede di non pubblicare il suo nome intero per timore delle rappresaglie, «abbiamo paura ma lo dobbiamo dire a tutto il mondo, vi prego dovete venirci a salvare». Un altro numero e un’altra voce disperata. «Ci hanno tagliato l’elettricità , i telefoni fissi, l’acqua corrente, hanno anche sparato sulle cisterne che stanno sui tetti dei palazzi per farci morire di sete. Non abbiamo più nulla in casa, impossibile uscire per cercare qualcosa da mangiare, i miliziani sparano su qualunque cosa si muova». Le strade di accesso alla città  sono bloccate da carri armati e barricate, non arrivano rifornimenti di nessun tipo. Gli ospedali invasi da centinaia e centinaia di feriti non riescono più a far fronte all’emergenza, manca ormai tutto, anestetici, bende, garze, sangue. In tanti invocano una tregua umanitaria di qualche ora ma per adesso da Damasco non è arrivata nessuna risposta. Ma nella tenuta del regime di fronte all’ondata di proteste e alla feroce repressione ordinata dal presidente Bashar Assad si sarebbe aperta qualche crepa. C’è stata una lunga sparatoria intorno a una delle caserme principali della città , i soldati di leva si sarebbero rifiutati di intervenire contro la folla e di partecipare ai rastrellamenti dei civili, alcuni militari della Quinta divisione avrebbero disertato per unirsi alle proteste. La mano dura del regime ha colpito ieri anche altre città . Forze di sicurezza fedeli al presidente Assad sono nelle strade che portano a Douma – un sobborgo alla periferia di Damasco – posti di blocco impediscono l’ingresso e l’uscita, ci sono numerosi mezzi militari con armi pesanti. A Banyas, sulla costa mediterranea, ma anche a Jableh – nel nord – in migliaia ieri sono scesi nelle strade al grido di «Libertà , libertà » in solidarietà  con gli abitanti di Dera’a. Dalle due caserme di Banyas non è uscito nessun mezzo militare, ma la popolazione denuncia che truppe meccanizzate stanno prendendo posizione sulle colline circostanti e si teme che la prossima città  su cui si abbatterà  la repressione sia proprio Banyas. Il regime, incurante delle pressioni internazionali, va avanti per la sua strada con la «soluzione militare» per tentare di fermare le proteste che da sei settimane scuotono la Siria. Caccia aperta nelle città  agli oppositori e agli attivisti dei diritti umani, basta il possesso di un telefono satellitare per essere accusati di «avere contatti con entità  straniere ostili», essere bollati come «traditori» e scomparire nelle carceri speciali. Il lifting delle leggi speciali in vigore dal 1963 annunciato da Assad è stata solo una manovra per guadagnare tempo. Dominato dai membri della minoranza alawita, il regime deve la sua sopravvivenza alla lealtà  delle Forze speciali e servizi segreti che vengono da quei ranghi, se andasse incontro alle richieste della piazza segnerebbe la sua fine. Come Gheddafi in Libia, Bashar Assad ha deciso di resistere fino all’ultimo, portando la Siria verso la guerra civile.

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