Siria, la piazza sfida Assad “Vogliamo la nostra libertà “
DAMASCO – Il secondo venerdì di protesta del popolo di Facebook decolla alle 12.27. I muezzin intonano l’Adhan, la chiamata alla preghiera, sotto il cielo opaco della primavera araba e siriana. E’ il segnale fissato dai ribelli per riempire le piazze. La mappa dei raduni copre i quattro punti cardinali. E’ la prova generale dopo il discorso presidenziale – «solo vaghe promesse» secondo gli internauti – e la notizia che la legge marziale verrà abrogata entro il 25 aprile, sostituita da norme anti-terrorismo. Su questo sfondo, governo e opposizione si misurano: calcolano ognuno le proprie schiere. Si accendono i primi focolai. Certi sono fiammelle, altri divampano. Duecento sfilano in corteo a Latakia e a Banias lungo la costa; altrettanti a Al-Hasakah e Al-Kamishli nel Nord Est fra curdi e assiri. Dera’a è l’epicentro: in migliaia reclamano giustizia per i morti. Fra i quattro e i sei se ne aggiungono ieri, secondo fonti contrastanti. Uno a Inkhil, vicino a Sanamen, quando un corteo vuole raggiungere Dera’a. Un altro a Homs, dove il governo accusa i cecchini. Tre o quattro a Duma vicino a Damasco. Malgrado gli scontri e le vittime, la presa della capitale non riesce. Un po’ per il timore, un po’ per le nuove misure presidenziali, i ranghi ribelli si sono sfoltiti rispetto al venerdì precedente. A Damasco il mattino s’annuncia col massiccio presidio degli agenti in borghese. Piazza degli Omayyadi, cuore virtuale del raduno fra le architetture nasseriane della Biblioteca Assad e il cubo moderno dell’Opera, è piantonata da drappelli all’apparenza disarmati. A gruppi di due, di tre, di cinque, si stringono sotto le lame d’ombra dei lampioni per riparasi dai 28 gradi. Hanno in comune la statura robusta. Ma la protesta non si materializza, neppure alla Moschea degli Omayyadi, da dove arrivano poi voci di tafferugli coi sostenitori del raìs, e di attacchi contro chi esce dal santuario. Per respirare, però, in senso letterale, l’atmosfera della rivolta bisogna lasciare la città , imboccare la strada che va a Palmira, e avviarsi verso Duma. Quello è il teatro degli scontri più duri. Prudente, l’autista Adnan, sul cruscotto della Ford Thaurus sintonizza la radio sul canale Al Saut al Shabab, la Voce del popolo, frequenza 88.7 onde medie, che tutto il giorno strillerà canti nazionalisti. Già alle porte della città , l’aria cambia odore: sono zaffate di polvere da sparo. Ancora poco e gli occhi pungono, il pepe nei polmoni. Una piccola marea umana, in vicinanza della moschea, travolge l’auto. Sono i ribelli, naso e bocca protetti da sciarpe e kefiah. Da qui in avanti, si va a piedi. Il corteo è lì, dietro l’angolo. La moschea è circondata da poliziotti in civile: all’interno, uomini e donne sono intrappolati. Nonostante i candelotti, gli shebab avanzano e si ritirano – una, due, decine di volte – inneggiando alle Islah, le riforme, e al canto universale di Hurryia, libertà . Hanno cineprese tascabili per filmare gli scontri e scaricarli su YouTube. Un trentenne ne cava una dalla tasca, marca Genx. Mostra l’atto più audace: il taglio di uno striscione col ritratto del presidente. Tre uomini hanno acciuffato, dicono, un agente armato. Vogliono mostrarlo. Ma su per la scalinata, al terzo piano, i fumi mozzano il fiato. I gatti, immuni, circolano indifferenti. Gli shebab saranno qualche centinaio, ma l’orgoglio dà corpo a file di 20 mila, e tanti ne contano. Qualcuno parla di 10 morti; un altro, con una spallata amichevole, lo contraddice: «Non raccontare fandonie». La sera, però, le agenzie calcolano 3 o 4 morti. A chiedere al piccolo popolo dei contestatori cosa li spinga, un avvocato, 36 anni, abito verde, fa: «Vogliamo essere come l’Italia, la Francia, la Germania e l’Inghilterra», intanto si tampona gli occhi paonazzi per i gas, con carta igienica inzuppata d’acqua. Altri si strofinano col succo dei limoni. All’ospite straniero porgono generosi una mascherina chirurgica e una brocca d’acqua fresca. Un secondo avvocato, 30 anni, bernoccolo sanguinante sulla destra della fronte per il colpo di un manganello, riassume in una parola: «Libertà . Non siamo terroristi: solo quella vogliamo. Egitto e Tunisia hanno infranto il nostro muro della paura». E’ la stessa espressione che si ritrova ad Al Tall, l’altro centro della protesta, a Nord. Il sole è scivolato a metà cielo, quando all’ingresso in città un soldato sveltisce il traffico con un manganello nero in gomma. Su un mare di teste ondeggiano palette con la foto del raìs. I sostenitori del presidente sono venuti a far da soprannumero rispetto alla piazza. A squarciagola giurano: Bil rouh bil Dam Nafdeek ya Bashar Col cuore e col sangue siamo con te, Bashar. Un tipo smilzo, nervoso, si fa avanti. Il mukhabarat temuto dai siriani, eccolo. Fuori i documenti. Sissignore. S’indispone: non legge i caratteri latini. Si aspetta l’esito di un parapiglia fra lui e i funzionari cortesi, che vogliono lasciarci andare. Adnan l’autista non parla più. Scuote la testa nel tormento: «E adesso? Cos’accadrà ?». Già sente il campanello di casa, si figura il mukhabarat alla porta. Ecco: lo smilzo, il Moloch degli shebab. Quello intendono, quando gridano Libertà .
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