Se un anti-eroe tossico racconta il nostro mondo

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«Non riesco a smettere e non ce n’è abbastanza». Perché ce ne sia abbastanza, Bill – agente letterario tra i più potenti al mondo – lascia fidanzato, agenzia, vita agiata, dignità  e, all’apice della carriera, si arrende al suo unico vero amore: il crack. Da qui in poi solo droga, inseguita, posseduta, vagheggiata, in un tour de force che cresce di ritmo e di pressione. Frasi sempre più brevi snocciolano compulsive le imprese anti-eroiche di un drogato di crack. Ma se di libri e film sulle dipendenze siamo pieni, perché leggerne ancora? Perché Ritratto di un tossico da giovane racconta una faccia di noi, ora. Da bambino, Bill soffre di una malattia psicosomatica: riesce a urinare a fatica, e nello sforzo inonda le pareti del bagno. Il padre sdegnato lo accusa: «riduci il valore della casa». Il trauma sarebbe un facile pretesto narrativo: rifiutato dal padre, il figlio si droga. Ma no, Billy non si strugge tanto per il disprezzo paterno, quanto per il terrore che gli altri lo scoprano. Che faranno, quando mi scopriranno? Anni dopo, Bill non ha ancora risposto a questa domanda. Che faranno, quando scopriranno che dietro il brillante agente letterario si nasconde un inetto? Prima che ciò accada, Bill decide di scomparire per sempre: nel crack. Amanti, amori, gigolo, tassisti, infami: a differenza di altre droghe il crack non si consuma da soli, si consuma con l’alcol, i porno, il sesso, e persino con la semplice presenza di un altro. L’addiction del Ritratto racconta il profilo cupo di un’umanità  che ha bisogno di essere massa persino nelle manie, che si aggrappa a qualunque prossimo come a una superficie saponosa. Ma quegli altri a cui l’uomo-massa si aggrappa sono anche i suoi censori, capaci di smascherarne la grettezza. È l’altro la vera droga, bramata e temuta. Scattante, costruito su un caleidoscopio di irrealtà  ma squisitamente narrativo, Ritratto monta in un crescendo maniaco che affligge ritmo, trama – frenetica quasi si trattasse di un thriller –, simboli: replicati e distorti all’infinito. Ovunque Bill si droghi, c’è una porta: l’unità  di misura del tossico. Dietro la sua «prima porta», Billy bambino si barrica per divorziare dalla realtà  familiare e consumare la propria tragedia: sono incapace anche solo di fare pipì. Dietro una sfilata di porte diverse, il tossico adulto cerca un posto per abbandonarsi alla sua dipendenza, e morire. Oltre tutte le porte si staglia incantevole, algida, la Normalità . Asserragliato dietro tutte le porte l’uomo si guarda allo specchio e vede un disadattato, uno che ai Normali appare come una mera teoria di ossa. L’ultima porta è decisiva: non solo la vita o la morte, ma l’ammissione che adultità  è solitudine, presa di responsabilità . Clegg tramuta così il crack in una cartina al tornasole capace di raccontare uno scarto: nelle mille maschere di cui eravamo prigionieri, ora ci barrichiamo. Se decidiamo di buttare la maschera non è per sincerità : ci vuole stima di sé anche per portare avanti una finzione. Da un lato, chi siamo non lo sappiamo noi, lo sanno gli altri; ma gli altri non devono scoprire la verità : che siamo dei mostri. La schizofrenia è un’altra droga: in preda a schiaccianti paranoie siamo in continuo pericolo; strafatti in case, alberghi, taxi, bagni pubblici, aeroporti ci agitiamo tra complottismo e lealismo. Tutto sembra. Cos’è? Nel romanzo di Clegg e a casa nostra ci muoviamo atterriti: qualcuno ci osserva, ci controlla, i tassisti non sono tassisti ma agenti della Dea che stanno per arrestarci, i passanti recitano, è un incubo o un immenso, eterno show. La dipendenza del Ritratto non è tossico-mania – è addiction allo stato puro. Non ci resta che morire, o raccontare. Ma Ritratto non è un libro facilmente pessimista o auto-commiserativo; se la parola principe di tutto il romanzo è vergogna, sul finale se ne affaccia un’altra: speranza. Dopo la riabilitazione, oggi Clegg è di nuovo uno degli agenti letterari newyorchesi di maggior successo. Ciononostante, di soluzioni definitive il Ritratto non ne fornisce, e per fortuna: il libro è una domanda a cui il lettore, se vuole, deve dare risposta. L’autrice ha scritto il romanzo Devozione


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