Sarkozy, il gendarme “lento” frenato dall’orgoglio africano

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Nelle primissime ore dopo l’arresto di Laurent Gbagbo la grande domanda è stata chi l’avesse catturato: i soldati di Alassane Ouattara, il presidente riconosciuto dalla comunità  internazionale? I caschi blu dell’Unoci, la missione delle Nazioni Unite? O gli uomini della forza Licorne, il contingente francese che ha il mandato di dare man forte all’Onu ma agisce sotto un comando autonomo? La risposta ha grande rilevanza politica immediata. Un ruolo primario dei francesi rafforzerebbe l’argomento dei sostenitori di Gbagbo, che considerano la sua sconfitta nient’altro che l’esito di un «complotto neocoloniale». Proprio per questo egli è comunque adesso nelle mani di Ouattara, il legittimo capo di Stato della Costa d’Avorio. Ma quando le acque si saranno almeno un po’ placate, la questione perderà  rilevanza. Nello scioglimento della crisi ivoriana, un dualismo di potere che durava dallo scorso novembre – un presidente eletto che governava da un albergo e uno sconfitto che rifiutava di andarsene -, la Francia ha giocato un ruolo decisivo. Tanto sul piano diplomatico che su quello militare. Poco importa se nel momento finale la Licorne sia stata in prima linea oppure defilata. Senza i francesi, Laurent Gbagbo starebbe probabilmente ancora rintanato nel suo bunker. Viene da chiedersi, semmai, perché ci sia voluto tanto tempo. Perché, con la comunità  internazionale compatta a sostegno di Ouattara, lo stallo sia durato quattro mesi. Nel lento disporsi delle forze rivali prima dello scacco matto di ieri, la popolazione della Costa d’Avorio ha sofferto moltissimo e la catastrofe umanitaria in corso non è certo risolta. Gli sfollati sono centinaia di migliaia. L’economia è paralizzata, l’emergenza alimentare al momento ingestibile. Stando a testimonianze non ancora definitivamente confermate, entrambi i campi si sono resi responsabili di massacri costati centinaia di morti. Il Tribunale penale internazionale sta indagando. Tutto questo si sarebbe forse evitato con un’azione tempestiva. Considerati da lontano, i tempi del dramma appaiono scanditi dall’orologio francese: l’interventismo del presidente Sarkozy per risalire la china dei sondaggi; l’intenzione di non apparire unilaterali, colpendo in Libia mentre si restava inattivi altrove. Ma numerose fonti diplomatiche europee e africane concordano nell’affermare invece che per tutti questi mesi la chiave è sempre rimasta in Africa. Fosse dipeso soltanto dall’Eliseo, l’intervento armato contro Gbagbo sarebbe stato questione di giorni. C’era bisogno però, se non di un consenso, di una copertura africana: per ottenerla sono occorsi mesi. A parte l’Angola, che ha sempre sostenuto l’ex presidente ivoriano ma negli ultimi tempi soltanto a parole, il vero osso duro è stato il Sudafrica. Un po’ per non concedere a nessuna potenza straniera il bastone di gendarme continentale; un po’ per non ammettere troppo presto il fallimento della mediazione di Thabo Mbeki, che andò ad Abidjan ai primi di novembre, fece la spola tra i due contendenti e non ne ottenne nulla; un po’ per difendere il ruolo del presidente Zuma, messo dall’Unione africana a capo dello speciale panel sulla Costa d’Avorio: per tutti questi motivi il Sudafrica ha dato a lungo l’altolà  ai francesi. Fino alla visita ufficiale di Zuma a Parigi il 2 di marzo. Lì, nei colloqui riservati all’Eliseo, la situazione si è sbloccata. Dopodiché c’è voluto un altro mese per consentire alle forze di Ouattara, dislocate nel nord e nell’ovest del Paese, di raggiungere Abidjan. Macchiandosi a quanto pare, nella loro lenta marcia di avvicinamento, di orrendi crimini contro la popolazione civile considerata, per ragioni etniche, fedele a Gbagbo. Sarebbero state dunque le lungaggini della diplomazia africana a lasciare la Costa d’Avorio, per quattro mesi, con un presidente di troppo. Tuttavia, dietro la domanda sui tempi di questa crisi se ne annida un’altra dalla risposta ancor più difficile: perché la Francia l’avesse giurata a Laurent Gbagbo. La Francia moderata, bisogna precisare, perché Gbagbo fu un amicone delle sinistre francesi e dei governi socialisti; tanto quanto ha avuto sempre nemici Jacques Chirac e il suo attuale successore. Domanda interessante; ma questa è un’altra storia.


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