Rimpatriati i primi tunisini Fughe e fiamme a Lampedusa
LAMPEDUSA — Scappano, ma senza correre. Con passetti veloci, da turisti indaffarati. Sottobraccio stringono quelle buste gialle per rancio e vestiti, che sono il loro unico bene ma anche una specie di marchio, sicché li riconosci lontano un miglio: «Avanzi di galera» , dicono ormai di loro molti lampedusani. Ma, ad essere sinceri, questi qui fanno più tenerezza che paura. Soufic ci chiede: «Où pour la France? Da che parte per la Francia?» . Amico, sei su un isolotto. «Bon, allora hai almeno una cigarette?» . Il centro di raccolta di Imbriacole butta ancora fumo dalle finestre: i ragazzi venuti da Tunisi hanno bruciato brande e materassi al grido di «liberté, liberté» , appena hanno capito che dal centro— a carichi di trenta al mattino e trenta alla sera — li avrebbero rispediti a Tunisi tutti e mille quanti sono. Così, di colpo, Lampedusa è nel caos, alle prese con un centinaio di fuggiaschi dalla faccia smarrita, che se li metti nell’angolo strillano: «Non rimandateci di là , ci picchieranno appena sbarchiamo» . I migranti che nessuno vuole tentano di mescolarsi alla gente di qui, sciamano attorno alla parrocchia di don Stefano, provano a nascondersi tra gli scogli, a sparpagliarsi nella campagna. Alcuni tornano spontaneamente nella gola di Imbriacole, si consegnano dopo avere vagato come falene impazzite. Altri saltano su qualche furgoncino delle organizzazioni umanitarie sperando di svanire all’ombra della solidarietà . Cinque si buttano a mare dietro il molo Favarolo, li riacciuffano mentre sono convinti di potersela svignare con robuste bracciate. In otto si piazzano al porto commerciale: «Dov’è il bateau pour Agrigentò?» . I poliziotti li circondano con cautela, senza esasperarli. In mattinata, al centro, le squadre antisommossa della Finanza hanno dovuto mostrare i manganelli e proteggersi dietro gli scudi, ma nessuno vuole far male a nessuno, è evidente. «Allora, questo bateau? Siamo uomini anche noi, egalité, egalité…» . Una nave, in effetti, gliela stanno preparando, ma non è quella che immaginano gli otto giù al porto. La «Excelsior» fa manovra al largo e poi attracca prima di cena a Cala Pisana, la baia degli imbarchi forzati. La decisione è presa, tutti via: i migranti dell’incendio, i loro compagni, quelli che sognavano «l’Italie» , quelli con maglia di «Cassanò» , i famosi «avanzi di galera» e i figli di mamma spauriti, tutti in un unico miscuglio di anime morte e bestemmie da caricare nel traghetto subito, già stanotte, e scaricare in Sicilia, forse a Mineo, o in Calabria, forse a Crotone, per poi organizzare i rimpatri con meno ansia e senza la pressione ormai troppo pesante di Lampedusa. Via i primi seicento: convincerli non è impossibile, come non sarà impossibile per loro scappare da centri di raccolta che non stiano su uno scoglio perso nel mare. Ha l’aria di un compromesso all’italiana: non è un successo strategico, i nostri alleati europei non saranno contenti. Si dimostra che basta bruciare due materassi per averla (quasi) vinta. Che si mette male è chiaro già al mattino. Alle undici esce dal centro il pullman bianco coi primi ventotto tunisini, due meno del protocollo: qualcuno fa la «v» di vittoria, qualcuno manda baci, qualcuno china il capo in un saluto, non hanno ancora capito quello che sta per succedere. Ma all’aeroporto lo intuiscono, l’aria è molto diversa, facce tese, sguardi stravolti, un silenzio pesante. In quel momento sul tetto del centro di Imbriacole una dozzina dei loro compagni vede le telecamere appostate sulle colline vicine e si fa sentire: «Tunisie no! Vive l’Italie! Liberté, liberté» . Qualcuno prova a canticchiare il nostro inno. C’è ancora una specie di allegria selvaggia. I ragazzi di Tunisi non sanno, fino alle tre di pomeriggio, cosa succede e dove sia atterrato l’aereo del mattino. «Non c’è stata nessuna comunicazione, certe proteste sono assolutamente fisiologiche quando hai tante persone tutte assieme» , dice Federico Miragliotta, il giovane dirigente del centro che ha fatto moltissimo, finora, per stemperare malumori e tensioni. Malumori e tensioni che però esplodono subito dopo la pausa del pranzo, quando arrivano da Tunisi le telefonate che tutti temono, quando qualcuno dei primi ventotto rimpatriati riesce a mettersi in contatto con i compagni qui a Imbriacole. Un centinaio dei più decisi comincia a urlare, «vogliamo essere trasferiti! Italie, Italie!» . Miragliotta tenta il dialogo, ma le trattative vengono interrotte dal fumo, dalle fiamme, lì, nel corpo centrale del compound, dove due anni fa divampò un’altra rivolta molto più violenta. Suonano le sirene d’allarme, nel caos comincia la fuga, a decine s’arrampicano dalla gola su per le colline, tagliano nei campi, sbucano sulla vietta che attraversa la contrada di Imbriacole. Fantasmi con buste gialle. Inginocchiato tra i sassi, Abdallah sembra disperato, non ci prova nemmeno a scappare. Sorregge la testa a un amico, Omar, che fatica a respirare: gli intossicati dal fumo sono decine. «È mio fratello» , mormora, ma non è vero, la verità è che qui tutti sono fratelli di paura e di dolore. In un misto di francese e italiano racconta la sua storia, nato a Parigi, tornato a quattro anni con i suoi a Tunisi, rimasto orfano: «Non c’è la Croce rossa, non so a chi raccontarla questa storia, se non a te, chiama mia sorella Nanja, ti prego, dille che sto bene, avrà paura per me. Tieni il numero» . Nanja è una voce gentile nel cellulare, aspetta il fratello, è a Parigi da tre anni col marito, hanno un banchetto al mercato delle Halles, sono regolari: «Aiutatelo, fatelo venire da noi» . Ma Abdallah è già lontano, risucchiato da un destino che ti imprigiona peggio del mare di Lampedusa. «Ci sbattono in galera se ci rimandate di là » . Il destino è adesso, sta già cominciando, alle otto della sera, per altri trenta di questi disperati. Nave o non nave, il volo in programma tocca mantenerlo per non perdere del tutto la faccia. Sicché si sentono da lontano le loro urla, sul pullman che li porterà all’aereo, «Liberté, liberté, Italie, Italie» . Un binomio che, verso notte, ripongono nella busta gialla, tra stracci, fregature e avanzi di panino.
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M i sono chiesto più volte in questi ultimi mesi, e quindi ancora di più dopo il lancio delle banane a Cervia, il perché dell’inasprimento del razzismo verso un ministro della Repubblica con il colore della pelle nero. E mi sono chiesto anche come faccia il ministro Kyenge ad avere ogni volta reazioni pacate, ironiche e sensate; sì, è evidente che la reazione è in sintonia con il ruolo e la personalità, però c’è qualcosa in più: la capacità di non opporre parole dure, o definitive, ma di assorbire la protesta in modo da sgretolarla in poche mosse, e senza scomporsi.