Questo è un uomo nei ricordi di Levi

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La voce di Primo Levi riaffiora nitida da un’intervista inedita di trent’anni fa. La realizzarono due storici torinesi, Anna Bravo e Federico Cereja, all’interno di un’inchiesta più ampia condotta per l’Aned. Una conversazione lunga oltre settanta pagine, densa di riflessioni sulla dignità  del vivere, sulla morte, sul suicidio, sul valore della scrittura, sulle rimozioni dei figli, analizzati da quell’osservatorio unico che è Auschwitz (Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, pagg. 93, euro 10). Dei campi di concentramento crediamo di sapere già  tutto. Levi vi ha dedicato libri bellissimi, che fortunatamente ancora si leggono a scuola. Ma questa intervista riesce ad approfondire temi già  presenti in quelle pagine, dal “galateo” del prigioniero – la cui capacità  di resistenza si misura anche dalla frequenza della rasatura e dalla piega della casacca – alla sconvenienza di certi argomenti come la morte, il crematorio o la camera a gas, dalla fragilità  degli intellettuali (generalmente meno abituati alle cose concrete della vita) agli effetti devastanti dell’isolamento linguistico, proprio degli ebrei italiani ignari dell’yiddish. Quel che lo scrittore ritrae è “un mondo bipartito, un mondo spaccato in due, noi e gli altri, e la morale corrente non vale più”. Ma ci sono due modi diversi di restituirlo nella scrittura. Se questo è un uomo nasce dall’urgenza di raccontare, di rendere partecipi gli altri, “una testimonianza quasi di taglio giuridico, un atto d’accusa non a scopo di scatenare una rappresaglia, ma una testimonianza”, mentre i racconti di Lilìt lasciano spazio alle “sottigliezze”, ai ritratti degli amici conosciuti nel lager, e nella narrazione letteraria le persone cessano di essere “persone” per diventare “personaggi”. Sono tanti gli spunti di riflessione indotti dalla testimonianza di Levi. Nella postfazione Anna Bravo valorizza il discorso sulla zona grigia, categoria quanto mai “banalizzata” e “fraintesa”, lamenta la studiosa, già  autrice di pagine molto belle sugli anni della guerra. Quello di Levi – ci ricorda Bravo – era un discorso sul potere nel sistema concentrazionario, e per zona grigia intendeva «l’area multiforme di funzioni e ruoli creata dai nazisti per amministrare il lager e per compromettere i prigionieri che quelle funzioni svolgevano». Una zona di “ambiguità “, “ibridismo”, “contorni mal definiti”, sorretta da un sistema di punizioni e privilegi, su cui Levi esprime parole precise. E che negli anni – scrive Bravo – è inopinatamente sbucata su giornali e libri per alludere a qualcosa di vago e insondabile, cioè un concetto molto distante da quel che aveva raccontato Levi. Una delle tante “parole della pigrizia”, così le definisce Bravo. La scelta di essere testimone di un’esperienza estrema può essere drammatica. Gravosa fino al dissolvimento. A Cereja viene in mente un personaggio di Levi (il racconto è Nel parco), che entra in un universo costituito da luoghi, autori e personaggi dei libri. La sua presenza non è eterna. Tre anni dopo il suo ingresso, Antonio – questo è il nome del protagonista – s’accorge che sta diventando pian piano trasparente. Prima le palpebre, poi la scatola cranica: Antonio è capace di guardare in alto, in basso, all’indietro. Così, scrive Levi, «comprese che il suo tempo era giunto, la sua memoria estinta e la sua testimonianza compiuta. Si congedò da James e dai nuovi amici, e sedette sotto una quercia ad attendere che la sua carne e il suo spirito si risolvessero in luce e vento». Solo la letteratura riesce a dirlo così.


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