Quello sguardo unico tra ironia e profondità 

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Quante volte viene da chiedersi cosa avrebbe scritto di Scilipoti, del bunga bunga e della guerra in Libia. Come pure sul nucleare: centrali sì o centrali no? E che mai ci avrebbe regalato su Lampedusa, Saviano, la rivoluzione araba e Mara Carfagna? Perché la cronaca incalza, com’è nella natura del giornalismo: ma più spesso di quanto s’immagini il punto interrogativo, quella piccola spina che si fa sentire fra cronaca, commenti, cultura e sport, quel mite pungiglione che vivifica la più varia umanità , è come l’avrebbe decifrata, questa cronaca, Edmondo Berselli, che se n’è andato ormai da un anno, ma sembra assai di più, tanto più mancando il suo sguardo e le sue parole. E a questi dubbi per così dire capitali e professionali, succede che se ne aggiungano altri minori, più generali e in qualche modo proiettivi: avrebbe perso quel suo sardonico buonumore davanti a ciò che torvo e buffonesco va accadendo? Si sarebbe fatto esaurire la pazienza di fronte a quelli che si prendono troppo sul serio e combinano pure guai, o magari avrebbe mollato la cruda attualità  per rifugiarsi tra le cose apparentemente più lontane e più “sue”, quelle che salvano l’anima, l’arte, per dire, la musica, la natura? Com’è abbastanza ovvio, la risposta soffia nel vento. Ma il risultato in fondo pure consolante di tutte queste domande sta proprio nel fatto di non poter rispondere, e questo perché la prima virtù di Berselli resta la sua pura imprevedibilità . Come dire: la sua fantasia e la sua indipendenza. La seconda, la terza, e le altre virtù del poliedrico scrittore, dello studioso di grave leggerezza, del virtuoso della memoria, dell’inclassificabile polemista, adesso ciascuno può scoprirle o riscoprirle perché la Mondadori ripubblica tutte le sue opere in un volume dal titolo Quel gran pezzo dell’Italia, con un saggio introduttivo di Franco Marcoaldi (1464 pagine, 40 euro). Il volume racchiude i nove libri scritti da Berselli in questi ultimi 15 anni: e subito colpisce l’intensa varietà  dei generi, che pure nella scrittura non rimanevano mai separati, anzi ballavano, flirtavano, non di rado si fondevano l’un l’altro dando vita a quel sorvegliato disincanto sentimentale e autobiografico che è la sua cifra: dal calcio (Il più mancino dei tiri) ai destini della sinistra (Sinistrati, appunto), dalla colonna sonora di una generazione (Canzoni) a L’economia giusta, passando per i felici anni sessanta (Adulti con riserva), l’esito del riformismo geo-etnico della sua terra (Quel gran pezzo dell’Emilia), lo smottamento della modernità  (Post-italiani), i tic degli intellettuali (Venerati maestri); fino alla reciproca conquista di Liù, un cane che dà  il titolo e anche il senso al libro forse più poetico e anche più sereno di Berselli. E a risfogliarlo commuove e insieme apre la porta alla speranza il capitolo in cui egli immagina di organizzare una festa in montagna per la sua Marzia che compie gli anni, «Venga chi vuole. È una festa dell’immaginazione, il sogno di un’altra realtà  possibile. Come nelle vere iniziative d’epoca, l’importante non è partecipare fisicamente. Ciò che conta è esserci. O anche solo immaginare di esserci». E quel che segue, l’interminabile lista degli invitati, suona come il modo più elegante e sentimentale per congedarsi da questa terra, così li ricorda uno per uno, e li saluta, ma soprattutto sembra dare appuntamento a tutti quelli cui ha voluto bene. Tanto più prezioso, questa specie di addio, quanto meno Edmondo era un tipo da piagnistei e sdolcinatezze. Al contrario, gli piaceva spargere sulla pagina una lieve, ma irresistibile nuvoletta sulfurea, senza però mai risultare malevolo. Aveva il gusto della parodia e l’amore per il gioco virtuoso dello sfottò, esercitava inoltre uno scetticismo ben temperato, ciò che di fronte alle peggiori e rimbombanti idiozie lo spingeva a «scuotere la testa e a dirsi e a dirgli: ma dai». (Senza il punto esclamativo). E anche a costo di sfidare la banalità  e la retorica, che talvolta coincidono, ci si limita a far notare quanto l’odierno discorso pubblico avrebbe bisogno di sintetiche e misurate reazioni – o testimonianze che dir si vogliano. Specie quando queste ultime scaturivano, com’è nel caso di Berselli, da spontaneo e limpido moto dell’animo, oltre che da profondità  d’interpretazione, onnivora ampiezza di letture, attenzione ai processi di lungo respiro, sorpresa di collegamenti, autonomia di giudizio e via dicendo. Per farla breve: sono testi bene invecchiati. Quelli più immediatamente politici (Post-italiani e Sinistrati) acquistano a distanza una maggiore chiarezza e prospettiva. Mentre quelli dedicati al riverbero sociale del calcio e della musica oppure impegnati a sbertucciare il ceto dei colti con i dispositivi del cabaret, si rivelano anticipatori di approcci oggi sempre più necessitati come pure di fertili mescolanze. Divertenti da rileggere sono le note, veri e propri backstage e insieme porte attraverso cui accedere all’interno di stanze per lo più inesplorate; e con lo stesso stato d’animo, ma con un tocco di nostalgia supplementare, ci si sofferma sui ringraziamenti dai quali viene fuori l’efficacia dell’officina berselliana, quel complesso e amichevole sistema di relazioni e illuminazioni, consulenze, chiacchiere, telefonate notturne, e riletture, dubbi, cortocircuiti, ripensamenti. Tutto è stato Berselli fuorché un solitario, e infatti non c’è libro che si possa togliere da una dimensione collettiva, a volte perfino corale. Eppure, specie nei suoi ultimi scritti, la fantasia reclamava indipendenza, individualità , libertà , e rivendicava il diritto di svolazzare allegro sopra i vincoli della magniloquenza trombonesca e l’asprezza delle contrapposizioni pregiudiziali. A muovergli le ali, d’altra parte, era un’abbondante dose di buonsenso e una spiccata vena fantastica che a volte gli scappava anche di mano, e allora lo trasportava anche parecchio in alto, e sotto si vedevano le strade con il traffico, i viottoli abbandonati, le scorciatoie, quelle vere, quelle finte, e i dirupi da cui poi era impossibile venir fuori. O almeno, era impossibile risalire la china senza il calore della parola, che una volta lassù, a saperla riconoscere, diventa anche profetica.


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