Quella grande fortuna di non sentirsi “stranieri”
È una camera d’incubazione che aiuta a crescere e costringe a guardare un po’ meglio dentro se stessi: non a caso il protagonista dell’Appartamento spagnolo riesce a sfuggire a una vita preprogrammata, scoprendo la vocazione di scrittore. Maturazione sospinta dalla naturale onda d’entusiasmo che sprigiona dai primi assaggi di libertà . Impossibile sopravvalutare il peso della mobilità transnazionale degli studenti nella costruzione della cosiddetta “identità europea”.
Chi vive le bizzarre mescolanze delle student house non si sente “multiculturale”, o qualunque altra etichetta vogliano usare le ricerche sociologiche. Semplicemente accade: non avverti alcuna reale distanza tra te e gli studenti francesi, austriaci, spagnoli, polacchi. È un gioco continuo: scoprirsi uguali eppure potersi regalare un mondo intero di cose sconosciute – a cominciare da musica, cibi, libri – raccontare sé e il proprio Paese, esplorare nuove abitudini, entrare nei meccanismi di uno humour differente.
In questo senso, il fatidico anno di studi all’estero assomiglia a uno stato d’innamoramento diffuso e prolungato (se il paragone vi pare eccessivo, osservate il sorriso idiota che si stampa sulla faccia di chi l’ha provato al momento delle rimembranze, e cambierete idea).
A livello più democratico e popolare, resuscita qualcosa dello spirito dei cenacoli intellettuali transnazionali dall’età moderna all’Illuminismo. Per quanto intensa, si tratta però di una dimensione esperienziale, prepolitica, e non è detto che questi vissuti siano sufficienti a garantire che la prossima generazione affronti e sciolga lo scoglio apparentemente insuperabile riproposto dall’emergenza libica: dare all’Europa un governo, una politica estera unitaria, a phone number, per dirla con Kissinger.
Ma se non abbiamo dimenticato del tutto le mostruosità prodotte dai viscerali e prepolitici sentimenti d’attaccamento all’Heimat nel Novecento, non possiamo che sostare stupefatti davanti a questo piccolo miracolo culturale che ha reso ovvio l’impensabile in tre generazioni o poco più.
In questi vissuti, l’euro non conta poi molto. Ricordo che avere in tasca una manciata di fiorini era per noi “Erasmi” italiani oggetto di perpetua ilarità , in omaggio all’indimenticabile gag di Non ci resta che piangere, ma, per il resto, del tutto indifferente – come è indifferente alle frotte di ragazzini che invadono Piccadilly Circus da tutta Europa che ci sia ancora Elisabetta II sulla manciata di pound con cui devono arrangiarsi per tutto un weekend. Il problema vero erano e restano i prezzi.
I ragazzi per definizione di soldi in tasca ne hanno pochi: l’euro, nel quotidiano, ci ha liberato dal ladrocinio delle commissioni di cambio e ha eliminato il fastidio dei calcoli frenetici davanti a un menù a prezzo fisso, un maglione o un cd introvabile in patria, per capire se conviene oppure è una fregatura.
Assai più della moneta unica è stato il cocktail esplosivo tra il trattato di Schengen e il business dei voli low cost a rivoluzionare le nostre vite, educando all’Europa anche chi non ha avuto accesso agli scambi universitari. Quando non hai che da infilarti in tasca la vecchia carta d’identità sbiadita e spiegazzata (ma presto la diffusione del supporto magnetico renderà obsoleto anche l’imbarazzo di mostrare eventuali strappi e macchie d’unto sulla prova della nostra italianità ) e raggiungere l’aeroporto costa spesso più del volo, Praga e Barcellona, Stoccolma e Budapest, diventano davvero mete familiari.
Siamo in tanti ad aver visto Parigi prima di Roma o Napoli. Ma c’è molto di più. Niente corse a ostacoli per il permesso di soggiorno, né l’ansia perpetua di perdere la social security che assilla chi tenta la fortuna sul suolo americano.
Partire costa pochissimo, e la bandiera stellata garantisce che potrai fermarti e provare a vivere, studiare, lavorare, in libertà : dipenderà dalla tua tenacia, determinazione, capacità . Non serve nemmeno più il modulo dell’assistenza sanitaria.
E chi riesce più a immaginarsela una vita senza questa libertà di essere cittadino d’Europa, senza dover chiedere permesso, senza l’umiliazione di essere trattato come un migrante che pietisce alla porta altrui.
Senza una riserva di futuro accessibile altrove, una finestra spalancata su un orizzonte aperto, tanto più preziosa quando l’atmosfera del tuo Paese si fa asfittica e le prospettive di lavoro mortificanti. E se molta è la strada da fare, è importante ricordarsi che abbiamo tante più possibilità per crescere perché qualcuno ci ha sognati, a Ventotene. Le tensioni profonde che attraversano l’Ue in questi giorni, di fronte all’intenso afflusso di migranti nordafricani, ci impongono di ricordare che adesso tocca a noi cittadini europei sognare in grande anche per qualcun altro.
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