“Noi tedeschi così egoisti”

by Editore | 14 Aprile 2011 6:20

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«Lampedusa è diventata la porta d’Europa. La sua crisi segnala come si debbano superare vecchi riflessi, antiche routine. In questo senso va presa molto sul serio. E mi fa molto arrabbiare che Bruxelles non lo faccia». Il sociologo Ulrich Beck è il massimo esperto di come faccende apparentemente remote, dalla delocalizzazione del lavoro agli incidenti nucleari, divengano d’improvviso domestiche. E non gli piace affatto come il Vecchio Continente si sta comportando di fronte agli sbarchi dal Maghreb. Minacce di secessione, veti, scaricabarile. Cosa resta dell’Europa? «È disgustoso come i Paesi europei stanno reagendo. Un pessimo esempio di ciò che molti chiamano, a questo punto correttamente, Fortezza Europa. Il fatto è che l’Italia, così come la Germania e la Francia, ha lasciato che un punto di vista nazionale dominasse una prospettiva che doveva essere europea». E invece cosa sarebbe dovuto accadere? «Una solidarietà  in due fasi. La prima, nei confronti dei nordafricani. Mi intristisce e fa arrabbiare vedere come possiamo essere così insensibili di fronte all’aspirazione di quelle persone di realizzare una loro versione del modello occidentale. La seconda, invece, interna ai Paesi membri. Capire che il problema non è solo di chi vive vicino al mare, ai confini esterni. È anche questa è mancata». Qualcuno ha ricordato però che quando si trattò di accogliere centomila rifugiati dal Kosovo la Germania non chiese aiuto a nessuno. Noi italiani ci disperiamo troppo facilmente? «Trovo particolarmente insopportabile l’atteggiamento del mio Paese, che si è molto avvantaggiato del sistema europeo riguardo ai rifugiati. E forse significa qualcosa che non ricordi neppure il nome del nostro ministro dell’Interno che, in carica da poco, ha già  avuto modo di fare alcuni spiacevoli commenti. L’Europa, vista da qui, sembra scomparire». Da noi i giornali vicini alla Lega hanno spiegato come concedere un permesso temporaneo fosse un trucco per lasciare la patata bollente alla Francia. Che non ci sta. Come giudica il suo comportamento? «Parigi sembra avere un’attitudine un po’ schizofrenica. Da una parte aiuta gli insorti in Libia, un’opzione non scontata, da soppesare con attenzione. Dall’altra assume un’attitudine molto nazionale, non all’altezza del momento storico in Africa». Di cosa avremmo bisogno per uno sguardo più cosmopolita su questa crisi? «Di un nuovo accordo di Dublino. Sarebbe ragionevole ipotizzare che ogni Paese europeo accogliesse un numero di rifugiati proporzionale alla propria popolazione. Sarebbe una soluzione equa. C’è poi il problema della preferenza linguistica, nel senso che la gran parte dei rifugiati tendono ad andare in paesi anglofoni e francofoni, e bisognerebbe trovare un correttivo anche per quello». Questo dissidio tra ragioni di convenienza elettorale locale e aspirazioni solidaristiche europee non è nuovo e continuerà  a riproporsi. È possibile superarlo? «Credo di sì, sebbene non sia semplice. Guardate la recente crisi dell’euro. La prima reazione dell’opinione pubblica è sempre nazionalistica: “Il Portogallo? Esca dai suoi guai da solo”. Anche la Germania aveva reagito così ma poi, piano piano, ha capito che era una risposta indegna della sua statura europea. E si è ammorbidita. È successo in vari altri casi. Può succedere anche oggi. La reazione naturale è quella dettata dalla paura e dall’egoismo, poi fortunatamente subentra la ragione».

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