“Morti e saccheggi in Costa d’Avorio”

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 La fine della dittatura di Laurent Gbagbo in Costa d’Avorio è vicina. E ieri si è capito in anticipo dalle oscillazioni del prezzo del cacao di cui il paese africano è il primo esportatore del pianeta. È bastato assistere ad un calo improvviso del prezzo per intuire che il blocco istituzionale del paese dell’Africa occidentale, in corso da ben quattro mesi, si era improvvisamente risolto. Magari con la forza, ma risolto. Ad Abidjan il segnale è arrivato poco prima delle 10. Dai 3669 dollari la tonnellata, il cacao è sceso ai 3100, avvicinandosi di molto ai 2900 del 28 novembre scorso quando si erano tenute le elezioni presidenziali. Tempo neanche un’ora e le agenzie di stampa segnalavano l’offensiva militare del primo ministro Guillaume Soro, nominato dal presidente Alassane Ouattara, vero vincitore della consultazione. Asserragliati nel nord del paese, i ribelli hanno cominciato la loro marcia verso il sud conquistando in tre giorni le principali città  e controllando i grandi snodi stradali. Mentre il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, rimarcava l’appello del Consiglio di sicurezza dell’Onu al presidente destituito della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, perché cedesse «immediatamente il potere» al presidente eletto Alassane Outtara, gli uomini di quest’ultimo, sostenuti da tutta la comunità  internazionale, ieri mattina si sono prima impadroniti di Yamoussoukro, la capitale politica nel centro della Costa d’Avorio e poi hanno preso possesso di San Pedro, nel sudovest, porto strategico e primo terminale al mondo per la commercializzazione del cacao. Non c’è stato neanche bisogno di combattere. Ormai in rotta, i soldati rimasti fedeli a Gbagbo sono fuggiti lasciando lungo la strada una scia di devastazioni: tutti i negozi della città  sono stati saccheggiati e la centrale di polizia è stata incendiata e derubata delle armi. Il prezzo del cacao era già  sceso e multinazionali come la Cargill, l’Adm e la Nestlé tiravano un sospiro di sollievo. Ad Abidjan è scoppiato il panico. Il capo di Stato maggiore delle Forze armate, il generale Philippe Mangou, si è rifugiato nell’ambasciata sudafricana assieme alla moglie e i cinque figli. Gbagbo ha rinunciato al suo ennesimo discorso in tv e si è asserragliato nel palazzo presidenziale. Ma era tardi: le colonne dei ribelli hanno raggiunto la capitale, l’hanno circondata e poi, non trovando alcuna resistenza, hanno accerchiato il Palazzo e la residenza del presidente uscente. Sono stati momenti drammatici: è stato rapito e subito rilasciato un sacerdote della Caritas internazionale, sono intervenuti 50 soldati della «Licorne», l’unità  francese presente in Costa d’Avorio, a difesa dei quartieri dove risiedono gli stranieri. Il carcere di Maca, il più grande del paese, era rimasto sguarnito e c’è stata un’evasione di massa. Abidjan è piombata nel caos. Ouattara ha fornito le sue garanzie. Ha dato due ore a Gbagbo per lasciare il potere ed evitare «inutili spargimenti di sangue» mentre le truppe dell’Onu hanno assunto il controllo dell’aeroporto di Abidjan. Parigi, attivissima sul fronte internazionale anche in questa partita africana, ha proposto un salvacondotto per il vecchio presidente. Ma gli Usa frenano. Per loro Gbagbo deve essere giudicato. In quattro mesi ci sono stati 700 morti, altrettante sparizioni e un milione di profughi. E i padri salesiani che gestiscono una missione parlano di saccheggi e rappresaglie.


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