“Il lavoro non è solo profitto in fabbrica niente sarà  come prima”

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ROMA – «Questa sentenza dice una cosa precisa: la vita di un lavoratore non si può trasformare in profitto. Non so se sia una decisione storica, so che è la prima volta che un amministratore delegato viene condannato per omicidio volontario. Non era mai successo». Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, misura le parole di fronte alla sentenza della Corte d’Assise di Torino. Riflette su come la tragedia alla Thyssen abbia inciso sulla coscienza di tutta la società  italiana, sulle resistenze che ancora ci sono di fronte al tema della sicurezza sui posti di lavoro, su come la tendenza ad abbassare il valore del lavoro possa condurre anche a consumare drammi come quello di due anni fa nello stabilimento siderurgico torinese. Cosa ha provato quando ha saputo della condanna? «La prima sensazione è stata positiva, per quanto si possa dire davanti a quella che è stata una vera strage. Ma, d’altra parte, la disattenzione alla sicurezza dei lavoratori in un impianto siderurgico non può che essere colpevole. Ricordo che subito dopo la tragedia, molti lavoratori denunciarono i tanti segnali di pericolo che c’erano stati dentro la fabbrica. E come l’azienda, avendo deciso di chiudere l’impianto, continuasse a produrre senza i necessari interventi sulla sicurezza. Ricordo, addirittura, il tentativo di fare ricadere le responsabilità  sui lavoratori». Cosa significa condannare un capo azienda per omicidio volontario? «Sia chiaro, non ho nulla di personale, ma credo che sia una decisione giusta. Viene respinta l’idea che per conseguire il profitto si possano sacrificare le condizioni di sicurezza dei lavoratori». Pensa che questa sia un’idea diffusa in Italia? «C’è una tendenza secondo la quale bisogna togliere i controlli, ridurre le procedure burocratiche, deregolare. La verità  che afferma la sentenza è che la responsabilità  della sicurezza dei lavoratori è dell’impresa». Definirebbe storica questa sentenza? «Non lo so. Dico che è una sentenza molto importante: non si può scherzare con la vita di chi lavora». Quasi un riscatto del lavoro, per quanto attraverso una vicenda drammatica? «Sì. Un riscatto molto doloroso. Ma può essere d’aiuto per ribadire che non può esserci un profitto a prescindere». Sta dicendo che nel nostro sistema imprenditoriale ci sia questa cultura? «Io ho visto un governo molto impegnato ad alleggerire la legislazione sulla sicurezza sul lavoro. Quasi un «liberi tutti». Una deriva culturale che porta a sostenere che possa esserci un lavoro senza diritti. Questo c’è. Poi, non c’è dubbio, la crisi economica ha aumentato la pressione sui lavoratori. Non a caso sono aumentate le malattie professionali». La crisi sta mettendo più a rischio la vita dei lavoratori nelle fabbriche? «C’è chi ha usato la crisi per sostenere che prima di tutto viene il lavoro e sul resto (diritti, sicurezza, tutele) si può anche sorvolare». Perché si continua a morire sul lavoro? Solo qualche giorno fa hanno perso la vita due lavoratori alla Saras dei Moratti in un incidente molto simile a quello della Thyssen. «Perché non si fa tesoro dell’esperienza. C’è una cultura, ripeto, che gioca sulla povertà . Piuttosto penso che manchi un senso di mobilitazione civile per dire che è proprio ingiusto morire sul lavoro. Servirebbe una mobilitazione corale per dire che queste morti sono contro qualunque idea etica della società ». Eppure gli ultimi dati dell’Inail indicano un calo delle morti nell’ultimo anno. «Ci andrei cauta perché vorrei capire quanto hanno inciso le ore di cassa integrazione, cioè di non lavoro». In questo contesto culturale che lei descrive, c’è una responsabilità  anche del governo? «In quello che è accaduto non c’è una responsabilità  diretta del governo. Ma certo questo governo è corresponsabile nell’aver creato un clima, un atteggiamento culturale, in cui si ritiene che i diritti non siano connaturati al lavoro». Cosa è cambiato in Italia dopo la tragedia alla Thyssen? «Purtroppo questo è diventato un paese che consuma qualsiasi notizia molto in fretta».


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UNIONE EUROPEA. La prima notizia viene da Eurobarometro: nel novembre 2012 la percentuale di chi tende a non avere fiducia nell’Europa è al 56% in Francia, al 59% in Germania, al 69% in Gran Bretagna; è al 53% in Italia, quasi raddoppiata rispetto al 2007, più che triplicata in Spagna dove arriva al 72%. La seconda viene dal Fondo monetario: nel 2013 l’area euro sarà  in recessione: meno 0,3%, dopo un calo che nel 2012 è stato doppio.

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