“Gli ultimi giorni di Pasolini temeva di finire così”

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ROMA – Il ministero dei Beni culturali «compia un sforzo» per salvare il Memoriale dei Deportati italiani realizzato ad Auschwitz nel 1979 con il contributo di grandi nomi della cultura, dall’architetto Lodovico Barbiano di Belgioioso, a Primo Levi, Luigi Nono, a Nelo Risi e Pupino Samonà . Lo chiede il Consiglio Nazionale degli architetti in una lettera al ministro Giancarlo Galan: «L’ipotesi prospettata dalle autorità  italiane di trasferire l’opera, ormai in abbandono, presso il Campo di Fossoli, invece di procedere al recupero “in situ”, è contraddittoria sia dal punto di vista logistico che da quello disciplinare». Separato dal drammatico contesto che lo ha generato, denunciano gli architetti, il Memoriale ai deportati italiani «perderebbe qualsiasi senso compiuto». Di qui l’appello a Galan «pur nella consapevolezza della ristrettezza dei fondi per la cultura».
Gli architetti: salvate il memoriale di auschwitz

Livio Garzanti ha novant’anni – classe 1921, li compirà  il primo luglio – ed è scortato da una fama gonfia di soprannomi e definizioni. “Uomo difficile”, “impossibile”, “incontentabile”, “pessimista freddo e ironico”, “ruvido”, “capriccioso”, “dispotico” o semplicemente “sulfureo”: ecco alcuni degli aggettivi che si porta dietro. «Editore controvoglia», lo definiva Cesare Garboli. Valentino Bompiani vedeva in lui il geniale creatore di “un’editoria nonostante”. E specificava: Livio «disprezza il successo ma lo pretende». 

Di umori testardamente mutevoli, per il primo libro da lui scritto, L’amore freddo, gli venne in mente di scegliere come pseudonimo “Ercole Bivio”, quasi a dire un campione del dubbio, ma poi ci ripensò. Dalle sue generalità  – Livio Garzanti – Benigni ha tratto un anagramma saporoso: “Il gran viziato”. 
Speciale anche come viziato. Nella Garzanti, dove, succedendo al padre, cominciò a comandare negli anni Cinquanta, non ha mai rivestito cariche ufficiali, né – mi si assicura – letto un bilancio. Era solo il padrone, il deus ex machina, la mente, il demiurgo. E ciò fino alla metà  degli anni Novanta, quando la casa editrice fu ceduta alla Utet. Ma parliamo piuttosto del fatto che Garzanti ha qualcosa o molto da dire ancora oggi, benché si definisca un “editore in pensione”, legato a “una stagione conclusa”, un “ex senza rimpianti”, “un avanzo”. Di se stesso parla, insomma, non tanto bene. «Sono un uomo intelligente ma senza alcun talento», sostiene, o addirittura «sono tonto». Se gli chiedete qualcosa di questo o quel best seller storico della Garzanti, si sottrae. «Come potrei aver letto tutti i volumi che ho pubblicato?». E i libri di oggi? «Non leggo più». 
Indifferenza? L’uomo emana al contrario una rude nostalgia. «Sono stato il giovane più fortunato che potesse esistere. Mio padre non era affatto una persona incolta. Si era laureato a pieni voti con Pascoli. Quanto a me, vivevo in un porte-enfant meraviglioso». Come si addice, dopo tutto, al figlio di un genitore ricco e destinato ad aggirarsi tra gente non banale. Fin dagli esordi, che Livio rievoca con emozione. «Sotto le armi ho conosciuto giovani di valore. Eduardo Caianiello, un celebre fisico napoletano, per fare un esempio». Altri intellettuali di qualità , da Giorgio Strehler a Dante Isella, Livio li aveva incontrati in Svizzera dove si trovava dopo l’8 settembre del ‘43. 
«Tornato in patria, ho trovato un paese splendido. Sono ancora abbagliato dal ricordo di ciò che erano Milano e l’Italia negli anni feroci e miracolosi fra 1946-47 e i Sessanta. Cominciava l’era di De Gasperi, che aveva stile. Si era formato all’estero, come d’altronde Togliatti. Mi presentarono ad Andreotti, ma non mi fece molta impressione. Mi pareva di avere tutta l’Italia in mano». 
Garzanti, se fra le molte persone – e qui parliamo dei letterati – che le sono passate accanto, dovesse indicarne una sola, chi sceglierebbe? La scelta si rifiuta di farla. S’intrattiene sulle opere redazionali da lui inventate, le Garzantine e l’Enciclopedia Europea, ma la lista, in qualche modo, la compone. Attilio Bertolucci. «L’ho incontrato in un’osteria del Modenese. C’ero andato con il mio grande amico e maestro Pietrino Bianchi, un giornalista già  molto avviato. In seguito, per molti anni, Bertolucci è stato un suggeritore di autori da pubblicare. Colto, informato, vischioso, quasi ti soffocava con la sua raffinatezza. Pasolini se ne sentiva intimidito, quasi da allievo a professore. Veniva spontaneo dargli del lei. Io d’altronde non do del tu quasi a nessuno. Per farlo bisogna che l’interlocutore sia stato con te a scuola o sotto le armi». 
Garzanti, mi nomini qualcuno al quale ha dato del tu. «Mario Soldati, perché me lo dava lui. Benché Bertolucci lo considerasse il letterato più elegante d’Italia, io gli parlavo come fosse un giocatore di bocce. Faceva tante smorfie. Contagiose. Le persone che lo circondavano davano l’impressione di fare le stesse sue smorfie». Soldati dispensava aneddoti su se stesso e sul mondo. Ne ricorda qualcuno? «Diceva d’aver avuto una storia con una figlia di Winston Churchill. Aggiungeva che, a tavola, Churchill simulava tattiche di guerra con le stoviglie. Mah!». 
Gadda? «Me lo ricordo come una comica. Grande, strano, ossequioso». In una lettera che le scrisse nel 1960 – è in un carteggio che una rivista pubblicò cinque anni fa – l’autore del Pasticciaccio, temendo una sua reazione a non so quale sua dichiarazione pubblica fatta in un periodo in cui come sempre si sentiva molto male, le scriveva. «La prego di non inquietarsi con me. Un suo rimprovero, nelle mie condizioni attuali, sarebbe la fine». «Infatti, Gadda mi professava una deferenza ridicola. Era un grande nevrotico. Non aveva mai dato un bacio a una donna. Mi mostrava – io, all’epoca, ero un giovanotto di trent’anni o giù di lì – l’adorazione che si può provare per uno zio, un principe del sangue o per Gheddafi. Fingeva di corteggiarmi. Invece mi odiava perché intervenivo sui suoi libri per consiglio di Bertolucci». Volponi era «un agitato». Parise «un artista vero, uno scrittore maledetto. Molto mio amico, salvo poi comportarsi da filibustiere. Contro di me ha scritto un libro intero». L’accenno riguarda un “romanzo dal vero”, Il padrone, 1965.
Passiamo in zona estero. Solo per un minuto. Truman Capote? «Carne molle. Era di un’omosessualità  ingenua, naturale. Una volta andando a visitarlo in una stanza d’albergo, lo sorpresi che sferruzzava a maglia. Da ragazzo, ho conosciuto anche Faulkner, di passaggio a Milano. Mi impose d’andarlo a trovare mio padre, ed era come farmi entrare in una chiesa a spintoni. Gli ho parlato per qualche minuto. Di cavalli, mi pare. Lui a stento mi ha guardato». 
Pasolini. «Per me sentiva più affetto che ammirazione. Abbiamo avuto un contrasto affettivo: come tra persone amate. Il motivo? Avevo pubblicato un libro di Bevilacqua, lui non lo tollerò. Per questo passò alla Einaudi. Ma poi lo rividi poco prima che morisse. Mi abbracciò così stretto che mi pare mi scricchiolino ancora le costole. So che sarebbe tornato alla Garzanti». La morte di Pasolini è sempre d’attualità . Associa letterati, politologi, politici. Si organizzano “passeggiate letterarie” che partono dal porto di Ostia, scandite dalla lettura di sue poesie. Del “complotto” si scoprono sempre nuovi testimoni. 
«In quei giorni ero a Parigi e nelle vetrine della libreria “La Une” ho visto tanti suoi libri. Ho capito subito. Mi sono precipitato a Roma. I gendarmi della Einaudi non mi volevano ai funerali in ricordo di quel dissapore su Bevilacqua. Il modo in cui è morto, Pasolini se lo aspettava. Era ricattato e aveva paura. Laura Betti ne era convinta e me lo disse». 
Ricattato? «Sì. Può sembrare strano. Lui era molto famoso, ma certo non era un miliardario. Se mi avesse chiesto dei soldi per questo, non avrei esitato a darglieli, come ho sempre fatto. Quando ci incontravamo a Roma negli anni Cinquanta e lo vedevo così povero, emaciato, malvestito proprio come uno dei suoi personaggi, gli davo subito dei soldi. Non tanti, per carità . Un cinque o diecimila euro di oggi. In fondo, era un autore al suo primo libro. Non esageriamo, come se io fossi stato un benefattore e non un editore». 
Ma torniamo a quella morte che non finisce mai. «Probabilmente sì, era spaventato, ricattato. Ecco, ciò che esce dalle ossa dei miei ricordi».

 

 


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