“Giusto che lo Stato partecipi ma va evitato il protezionismo”
CERNOBBIO – Anche negli Stati Uniti, patria del libero mercato, non si stappò champagne quando Finmeccanica acquisì Drs, ricorda Giuseppe Recchi, presidente del colosso mondiale General Electric per il Sud Europa e del comitato investitori esteri di Confindustria. Ma Oltreoceano la battaglia si conduce a colpi di Opa mentre in Europa si parla di fondi partecipati dallo Stato. Dottor Recchi, come giudica l’intenzione del governo di costituire un fondo strategico per le imprese, sul modello di quello francese? «È giusto che lo Stato partecipi strategicamente alla propria industria. Il convertendo Fiat non era una modalità molto diversa. Ma l’operazione diventa positiva solo se fatta in un’ottica di mercato, non protezionista, volta a proteggere le imprese dalle inefficienze». C’è il rischio di creare un nuovo Iri, nel senso meno nobile del termine? «L’Iri creò dei campioni internazionali e oggi l’obbiettivo del fondo deve essere quello della crescita e della creazione di valore. Se invece diventa preponderante creare un centro di potere in cui si scaricano le voglie represse della politica, allora non va bene. Non a caso negli anni ‘90 sono state fatte le privatizzazioni». à‰ vero che la dimensione per le imprese è diventata fondamentale? «Sì, c’è un’esigenza di mercato che premia i grandi, le imprese che sanno sviluppare tecnologia e possono aggredire mercati nuovi. Per far tutto ciò occorre cultura imprenditoriale che l’Italia non possiede. Le multinazionali nate nel nostro Paese negli ultimi vent’anni sono pochissime, siamo un mercato piccolo che sta consumando la ricchezza accumulata in passato» Tremonti ha nostalgia anche della vecchia Mediobanca. «Da quel che mi ricordo la Mediobanca del passato finanziava le imprese secondo logiche prettamente nazionali, soggetti locali che compravano altri soggetti locali. Operazioni senza respiro strategico volte a formare una rete e impedire scalate dall’estero» Un modo sbagliato di allocare le risorse? «Occorre dare i soldi a chi ha una mentalità nuova e di crescita e non alle reti incrociate e alle holding, altrimenti il Paese resta indietro». Gli imprenditori italiani non riescono ad aggregarsi e a far crescere i propri gruppi, come mai? «È un circolo vizioso che parte da un sistema rivolto al mercato interno che non può far leva su un mercato dei capitali importante. Bisogna cambiare il Dna delle imprese con educazione e informazione. Se non c’è un imprenditore italiano interessato a Parmalat significa che imprese familiari come Barilla e Ferrero non hanno stimoli a cogliere rischi su scala globale». Con General Electric avete appena fatto un’acquisizione in Francia da 3,2 miliardi, avete trovato ostacoli? «No, ma le modalità attraverso cui ti muovi sono importanti. Devi renderti accettabile dal sistema in cui ti vuoi inserire, se compri il 30% in Borsa e poi lo annunci ai giornali è normale che sorgano dei problemi».
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