“Alle finestre di Abidjan aspettiamo la pace nascosti

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Al tramonto, sono arrivati. Io e mio figlio abbiamo sbirciato attraverso le tende per osservarli. Erano uomini armati che avanzavano in silenzio, seguiti da veicoli con i fari spenti. Sembrava di assistere a un film. Poi abbiamo sentito degli spari. L’attacco contro i sostenitori di Gbagbo stava cominciando. Nel mio condominio ci sono sostenitori di entrambi gli schieramenti, ma regna l’armonia. Sappiamo che è meglio non parlare di politica. Domenica, dato che sono la presidente del condominio, ho organizzato una riunione. Si sono presentati tutti: avevano la faccia cupa, ma non c’era nessuna animosità . Eravamo tutti sotto tiro. Abbiamo deciso che in caso di attacco avremmo dato l’allarme battendo su pentole e padelle. Le giornate naturalmente sono lunghe, perché le sparatorie ci impediscono di uscire. Quando i colpi di cannone si fanno pesanti, strillo a tutti di mettersi in corridoio. Io sto davanti al computer fino a notte inoltrata, a parlare via Skype. Il coprifuoco comincia a mezzogiorno e l’atmosfera è tetra e pesante. Io batto freneticamente sul computer per avere notizie. Mi fa male la schiena da quanto sono rimasta seduta; ho gli occhi doloranti, ma non riesco a staccarmi. Lunedì finalmente la notizia arriva. Le truppe entrano ad Abidjan per liberare il palazzo presidenziale. I muri tremano, si sente il rumore dei colpi d’arma da fuoco. Abbiamo paura. Mio figlio dice che non avrebbe mai immaginato che avrebbe dovuto strisciare come un serpente. Ci mettiamo a ridere. Il computer continua a propinarmi contraddizioni. Aspetto che finisca. Aspetto la liberazione. (©New York Times- La Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)


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