“Aiutateci, anneghiamo” e il mare di Lampedusa si trasforma in un inferno
LAMPEDUSA – «Sit down, sit down. Stop, sit down» «Sedetevi, sedetevi. State fermi», gridavano a squarciagola i marinai delle motovedette “301”” e “302” della Guardia costiera a quei trecento disperati stipati su un vecchio barcone di legno di appena 10 metri. Ma loro, che ormai si sentivano salvi dopo due giorni in mare aperto, continuavano a muoversi. Passavano da una parte all’altra, cercavano di arrivare per primi sulle barche che erano andate a soccorrerli. Uno di loro ha afferrato la cima lanciata dalla motovedetta, altri continuavano ad agitarsi a bordo. Troppo per restare in equilibrio e il legno che imbarcava acqua dal mare si è improvvisamente capovolto. Cadevano a grappoli tra le acque in tempesta, uomini, donne, bambini. Tutti e trecento. Molti scomparivano subito nel buio della notte e tra le onde alte 4-5 metri, altri venivano inghiottiti dal mare dopo pochi minuti, altri, pochissimi, continuavano a gridare. «Help me, help me», aiuto, aiuto. Si sono salvati soltanto in 51, tutti gli altri, circa 250 sono finiti nel cimitero del canale di Sicilia a 36 miglia a sud di Lampedusa. Di loro non si sa. Fantasmi erano, fantasmi rimarranno. La tragedia si è consumata ieri poco prima dell’alba al largo di Lampedusa. Il barcone era partito dalla Libia in guerra due giorni fa e vagava per mare in attesa di un miracolo. L’allarme è scattato poco prima delle due della notte di ieri, la Guardia costiera maltese ha avvisato quella italiana che aveva già ricevuto una chiamata da un satellitare. Era la voce di un disperato che chiedeva soccorso. L’allarme, nonostante la zona di mare fosse sotto controllo di Malta che avrebbe dovuto effettuare il soccorso, è stato girato al comando generale della Marina Militare italiana a Roma. Poi Sos generale con l’ordine a tutte le imbarcazioni e navi che si trovavano in quell’area a dirigersi verso il barcone in balia delle onde a 34 gradi e 57 primi nord e 12 gradi e 37 primi est. L’imbarcazione più vicina era il motopeschereccio “Cartagine” a 36 miglia a sud di Lampedusa ed a dieci dall’obiettivo segnalato. «Abbiamo tirato subito le reti e ci siamo diretti verso la posizione che ci era stata segnalata. Siamo arrivati dopo qualche ora, il mare era brutto, forza quattro o cinque, era buio pesto – racconta Francesco Rifiorito, 47 anni, capitano del “Cartagine” – Da lontano abbiamo visto arrivare le motovedette della Guardia costiera e ci siamo avvicinati in attesa di ordini. I fari delle motovedette hanno illuminato quella barca di legno, stipata di gente all’inverosimile, che saltava tra le onde. Poi ho visto sparire il legno e sentivo gridare in mezzo al mare». Il capitano ricorda: «Il barcone con il suo carico di disperati si era appena capovolto e tutti e trecento erano finiti in acqua». La motovedetta “301” comandata dal capo Domenico Sorrentino, aveva quasi agganciato la barca. «Un marinaio era riuscito a lanciare una cima che era stata raccolta da uno di quei trecento. Ma loro si agitavano. I soccorritori gridavano di stare fermi e di non muoversi perché con quel mare la barca così carica poteva capovolgersi», dice un marinaio della Guardia Costiera. Sulle motovedette si gridava e si bestemmiava, lanciavano ciambelle di salvataggio e cime in mare, si cercavano uomini, donne e bambini da salvare. «Ma il mare li inghiottiva piano piano, uno dietro l’altro. Era un inferno», dice Ninni, un giovane sottocapo di seconda classe ormai veterano di decine di interventi fatti in questi ultimi anni a Lampedusa. «Alcuni – prosegue – erano riusciti ad acchiappare i salvagente che avevamo lanciato, altri le cime, ne abbiamo tirati su a fatica trenta, quaranta, cinquanta. Non li abbiamo contati, ma molti altri non c’erano più». Via radio la Guardia costiera comunicava al motopeschereccio “Cartagine” di avvicinarsi e di cercare uomini in mare. «Ci siamo avvicinati, ma non si vedeva nulla – racconta il capitano Rifiorito – sentivamo soltanto delle grida, e quando li vedevamo subito dopo sparivano tra le onde. Le loro grida ci guidavano in quel mare in tempesta. Prima ne abbiamo avvistato uno, poi un altro e poi un altro ancora. Li abbiamo recuperati, ma non era facile perché c’era il pericolo di investirli. Poi non abbiamo sentito più nulla, era ritornato il silenzio e ci siamo diretti verso il porto di Lampedusa, con i sopravvissuti che abbiamo riscaldato facendoli stare in sala macchina». Ricorda: «Erano sfiniti e tutti si sono addormentati. Si sono svegliati al molo di Lampedusa, ma erano morti che camminavano come gli altri, sbarcati dalle motovedette della Guardia costiera. Erano quasi tutti uomini e pochissime donne, niente bambini, era come se non fossero mai nati perché sono finiti tutti in fondo al mare». Al “Bar dell’Amicizia” di Lampedusa quattro marinai con gli occhi affossati, le facce segnate dalla fatica e dalla rabbia, mangiano un arancino e bevono acqua minerale. «Era un inferno, ne abbiamo salvati centinaia e centinaia, ma ieri era impossibile. Anche sulla nostra motovedetta era un incubo, le zattere di bordo ci sbattevano contro, loro cadevano in mare e non potevamo fare nulla. Ma possiamo affrontare questa situazione con due motovedette d’alto mare? Carabinieri, poliziotti finanzieri, guardie forestali, sono oltre duemila, noi delle “CP 301” e “302” siamo meno di 20. Cosa aspettano a mandarci altri mezzi ed altri uomini? Ci vogliono altre stragi? Oggi (ieri, ndr) è stata una sconfitta per noi perché volevamo salvarli tutti ma non ci siamo riusciti, non era possibile».
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