Profughi. L’Italia prenda esempio dal Kenya
E così, ancora una volta, il mar Mediterraneo si trasforma in un inferno, inghiottendo nelle sue acque chi scappa dalla guerra in cerca d’aiuto. Ma non si può parlare di fato o dare colpa al destino crudele. Anche in questa tragedia l’Italia ha la sua buona dose di responsabilità .
Gli sbarchi delle settimane scorse a Lampedusa sono stati enfatizzati da una campagna mediatica che ha infuocato il clima nel Paese. Anziché mettere in campo i protocolli per l’accoglienza ed organizzare le operazioni di “smistamento” dei profughi, il governo ha riempito i giornali d’inchiostro, portando l’isola al collasso pronta, anch’essa, al “ghe pensi mi” mediatico come i rifiuti a Napoli o le case a l’Aquila.
Si è passati dal “fora di ball” del Senatùr Umberto Bossi, alla frase shock del viceministro Roberto Castelli: “bisogna respingere gli immigrati, ma non possiamo sparargli, almeno per ora…”. Gli arrivi dei migranti, giorno dopo giorno, sono stati accompagnati da affermazioni sempre più forti. E da titoli a caratteri cubitali. “Ennesimo sbarco a Lampedusa”, “Invasione sull’isola”, “Assalto dei clandestini”.
Esagerazioni usate soprattutto dalla componente leghista che ha un peso non indifferente all’interno dell’esecutivo, per creare un clima di tensione e dar vita a politiche sicuritarie.
Basta, infatti, citare i numeri per capire che quella dei migranti del Nord Africa in Italia non sarebbe stata un’emergenza se, a monte, ci fosse stata una minima organizzazione per la loro accoglienza. Si parla, infatti, di 20-25 mila sfollati. Cifre nella media stagionale che possono preoccupare ma non allertare come fossimo in guerra una nazione di quasi 60 milioni di abitanti. Con il coinvolgimento rapido delle Regioni e delle Province, si sarebbe potuto attuare un piano d’accoglienza efficace, senza allarmismi ingiustificati. Ma evidentemente quest’emergenza faceva comodo a chi deve la propria fortuna elettorale proprio agli immigrati ed alle paure da “mamma li turchi”.
L’Africa può insegnarci qualcosa. Non vogliamo arrivare agli esempi estremi della città di Goma della Repubblica Democratica del Congo (centomila abitanti) che ha “accolto” un milione, dicasi un milione di profughi post genocidio del ’94 in Rwanda, ma ad esempi che in Africa sono risultati “più che sostenibili”. Nyahururu, Kenya. All’equatore.
In città ha sede il Saint Martin. L’organizzazione è stata creata non per rispondere in prima persona alle esigenze di persone vulnerabili, sofferenti e dimenticate ma per rafforzare le comunità locali affinché siano queste a farsi carico, a loro volta, dei più bisognosi.
La storia. In seguito agli scontri tribali sorti dopo le elezioni del dicembre 2007 che ha visto opporsi Odinga a Kibaki, c’è stata una fortissima ondata migratoria. All’inizio del 2008 c’è stato un fuggi fuggi dei “kikuyu” che sono arrivati a Nyahururu dalla Rift Valley. Nell’arco di una settimana sono arrivate 50.000 persone in una città di 100.000 abitanti. Gli operatori del Saint Martin si sono dati da fare. Hanno deciso di non dar vita a campi profughi ma di smistare questi migranti nelle diverse comunità in altrettanti villaggi. In quota parte. Al massimo 400 per villaggio. I profughi sono stati accolti nelle famiglie e nelle chiese. Certo, erano della stessa tribù (kikuyu con kikuyu) e non è tutto oro quello che luccica: le stesse famiglie che hanno accolto questi migranti hanno costretto altre famiglie che vivevano lì da anni ad andarsene da Nyahururu perché di etnia diversa.
Impazzito il trono, dunque, ci provò l’altare. Il 30 gennaio – in occasione del 60° dalla morte del Mahatma Gandhi – tutte le Chiese, compresa la moschea, si sono incontrare per organizzare la più imponente manifestazione nonviolenta della Provincia, che passò di mercato in mercato anche perché in Africa tutto è mercato. La marcia ha avuto un’eco “straordinaria” in Europa tanto da guadagnarsi sei righe di una sola agenzia stampa. Nonviolenza – non notizia. Terminata la giornata i sei vescovi / patriarchi / imam si sono autoaccusati di non essersi incontrati prima del conflitto ma solo dopo. Un monito per la futura diplomazia preventiva.
In sintesi. In una città di 100.000 abitanti di un Paese “impoverito” ha saputo accogliere 50.000 persone nell’arco di una settimana. Una nazione “occidentale e sviluppata” di quasi 60 milioni di abitanti non è in grado di accogliere 20.000 profughi. C’è qualcosa che non funziona. Qualcuno, di fronte a questi numeri, dovrebbe sentirsi in imbarazzo. E, di tanto in tanto, prendere esempio dai paesi oltremare che, in fatto di accoglienza, si danno da fare.
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