by Editore | 22 Aprile 2011 6:13
A volte sono senza guinzaglio. Ed è anche per questo che provo per loro una forte simpatia, spesso ammirazione. Simpatia e ammirazione superiori a quelle che mi ispirano, di solito, i colleghi giornalisti della parola. Loro, i fotoreporter, devono avvicinarsi alla realtà . Per riprenderla devono quasi toccarla. E può essere rischioso. Quando ho appreso la notizia della morte di Tim Hetherington e di Chris Hondros, a Misurata, mi sono ricordato di Michel Laurent. Era un ragazzo. Aveva ventisei anni quando l’ho incontrato per l’ultima volta, ma appariva ancora più giovane. I suoi lineamenti erano delicati. Quasi femminili. E i ciuffi di riccioli, abbondanti, che gli ricadevano sulla fronte, mascheravano il piglio dell’uomo d’azione, risoluto, ben evidente quando, occhi e obiettivo puntati, era alla ricerca di un’immagine. Alcuni amici, fingendo di prenderlo in giro, lo invitavano ad essere più prudente, a «non sfidare troppo la morte», perché la morte, permalosa com’è, poteva aversene a male, e quindi vendicarsi. Era nel ’72 a Saigon. C’è in giro un suo ritratto, preso con la Polaroid, proprio in quei giorni, ed è per questo che posso ricordare anche il mese. Tim Hetherington e Chris Hondros, uccisi a Misurata, sono gli ultimi di una lunga lista di fotografi caduti in battaglia. Perché in guerra un’immagine può riassumere tutto il senso di un evento, ma per scattarla bisogna esporsi a rischi enormi Dal Vietnam alla Cisgiordania, mine, bombe e proiettili vaganti sono sempre in agguato. Era giugno. Non ci vedevamo dal dicembre del ’71, da quando c’eravamo incrociati a Dacca, la capitale del Bangladesh, in preda all’esaltazione e alla voglia di vendetta. Era appena stata espugnata dall’esercito indiano, vittorioso sull’occupante pachistano, e in uno stadio si celebrava in anticipo l’indipendenza. L’India l’avrebbe presto elargita. Al tempo stesso si regolavano conti. Era come brindare alla liberazione col sangue. I mukti bahini, i partigiani che si erano battuti contro i pachistani, uccidevano i collaborazionisti. Li infilzavano con le baionette. Michel aveva ripreso una di quelle esecuzioni sommarie e per quella fotografia aveva ottenuto il Premio Pulitzer. Era stato il primo straniero ad ottenerlo. A ventisei anni. Sei mesi dopo, in Vietnam, fumava i soliti grossi sigari, caricaturali tra le labbra di un ragazzo, la cui apparenza angelica si addiceva più a un seminarista esemplare, dedito a servir messa in una parrocchia della provincia francese che a un fotoreporter al continuo inseguimento di guerre asiatiche. Si discuteva ancora, in quel giugno del ’72, sulla fotografia di Dacca. Ci si chiedeva se la presenza di fotografi nello stadio avesse spinto, stimolato, i partigiani a dar spettacolo, a esibirsi, a trafiggere con le baionette i collaborazionisti. E quindi se i fotografi dovessero considerarsi in qualche modo corresponsabili di quelle esecuzioni. In realtà era in ballo, indirettamente, la potenza dell’immagine. Che nella fotografia è più autentica, più forte, più cruda, che sul teleschermo onnipresente. Tre anni dopo, quando aveva ventinove anni, ed era da poco padre di una bambina, Michel Laurent era ancora in Vietnam. Lavorava sempre per la parigina agenzia Gamma, e non voleva perdere l’ingresso dei nordvietnamiti a Saigon. Vale a dire la fine di una guerra di trent’anni. Michel era impaziente, e con Christian Hoche, inviato dell’Express, decise di andare incontro agli uomini del generale Giap. Lui e Hoche presero la strada di Bien Hoa. Era il 27 aprile 1975 quando rimasero impigliati in uno scontro a fuoco. Michel capì che gli amici avevano ragione. Non doveva giocare troppo con la morte, anche se le immagini che si proponeva di riprendere avevano un valore storico. In quei momenti Michel si è reso conto che stava correndo un rischio eccessivo. Adesso aveva una figlia. Ma era tardi. È morto in quella terra acquitrinosa, sulla quale sono disegnate risaie geometriche, a ridosso di una diga melmosa. Hoche, gravemente ferito, è stato salvato dall’amico Jean Pouget, un altro giornalista, partito alla sua ricerca. Pouget ha scambiato Hoche con due bidoni di benzina. Cosi l’inviato dell’Express ha potuto raccontare le ultime ore, gli ultimi momenti di Michel Laurent. L’ultimo giornalista morto in Vietnam. Tre giorni dopo i bodoi, i soldati di Giap, entravano a Saigon. La breve vita del fotoreporter Michel Laurent si è conclusa in Vietnam vent’ anni dopo quella di Robert Capa, morto anche lui in Vietnam, il 25 maggio 1954. Qualche settimana prima era finita la battaglia di Diem Bien Phu, con la sconfitta dell’esercito francese. Si stava quindi chiudendo la fase coloniale del conflitto indocinese. E non era ancora cominciata la fase americana, o anticomunista. Robert Capa fu ucciso da una mina all’avvio di quella che fu una tregua, una parentesi, prima della ripresa della guerra, con altri protagonisti stranieri. Il grande fotoreporter di guerra morì quando le armi stavano raffreddandosi, prima di entrare di nuovo in azione. L’esempio di Robert Capa, autore di una delle più celebri fotografie di guerra mai scattate (“The falling soldier”, o “La morte di un soldato repubblicano”) era sempre inevitabilmente vivo nella memoria del giovane Michel Laurent. Ho ricordato la discussione, in verità vaga e affrettata, nata dopo la fotografia di Dacca. Quella che Capa fece il 5 settembre 1936 in Spagna, durante la battaglia di Cerro Muriano, ha acceso ben più vivaci polemiche. Fu preparata, con un soldato che cade per finta, come se fosse colpito a morte, o è autentica? Chi sostiene quest’ultima tesi, quella dell’autenticità , precisa anche il nome del soldato (Federico Borrel Garcia). Aggiunge inoltre che il soldato fu comunque ucciso da un cecchino, anche nel caso la fotografia non fosse stata scattata proprio nel luogo in cui si svolse la battaglia. Chi sostiene la tesi della messa in scena non concede attenuanti. Questa breve, sommaria rievocazione della polemica sorta molti anni dopo la morte di Robert Capa, vuole soltanto sottolineare come l’immagine captata da un fotoreporter riesca talvolta a riassumere un evento storico come o più ancora di un’opera scritta. E proprio per questo possa accendere discussioni, dalle quali politica e ideologia non sono assenti. Il vero nome di Robert Capa era Endre Erno Friedmann. Era nato a Budapest in una famiglia ebrea ed era diventato americano. Antifascista, durante la guerra di Spagna si schierò apertamente con i repubblicani, e la sua famosa fotografia è un monumento in omaggio al soldato antifranchista. Metterne in dubbio l’autenticità può quindi non essere soltanto il risultato di un’indagine tecnica. E anche se quest’ultima non fosse del tutto infondata, essa non intaccherebbe minimamente il significato della fotografia. E ancor meno il valore di Capa, fotoreporter e uomo, basato su una intera vita di coraggio e bravura. Come, su un diverso piano, la fotografia scattata a Dacca da Michel Laurent è la testimonianza di un evento e non il frutto di un giovane cinico. Il fotoreporter con un’immagine può riassumere un capitolo di storia. E l’immagine può essere spietata, come una pagina di buona letteratura. Ero a Gerusalemme quando Raffaele Ciriello, il 13 marzo 2002, fu ucciso a Ramallah da un proiettile israeliano. Ciriello aveva 42 anni ed era un chirurgo plastico. Era diventato fotoreporter per passione. I territori palestinesi di Cisgiordania erano teatro di ripetuti scontri e lui era appostato all’angolo di una strada sulla quale stavano irrompendo i mezzi blindati di Tsahal. Come aveva fotografato i palestinesi armati, così uscì allo scoperto per fotografare gli israeliani. Sono istanti in cui si rischia la vita. Perché chi avanza verso di te non ha sempre il tempo di distinguere un obiettivo dalla bocca di un’arma da fuoco. O comunque spara senza troppo badare chi ha di fronte. Ma un’immagine efficace implica un rischio. E Raffaele Ciriello l’ha corso con coraggio. Non avevo mai incontrato quel medico diventato fotoreporter di guerra. Ma quella sera di marzo, quando fu ucciso, rimpiansi di non averlo conosciuto. Ho invece conosciuto Ennio Jacobucci. Molti a Saigon lo stimavano. Aveva conquistato una certa fama, tra i corrispondenti in Vietnam, perché aveva fatto uno scoop importante nel marzo del ‘72. Si trovava a Quang Tri, vicino alla linea di demarcazione tra il Nord e il Sud, quando i soldati di Giap inflissero agli americani una severa sconfitta. Non c’era una sola casa in piedi dopo una battaglia durata più giorni. Ennio Jacobucci riuscì a comunicare la notizia all’Agence France Presse per la quale lavorava come fotografo. Fu il primo, con un forte anticipo sui reporter americani, e così l’agenzia francese diffuse la notizia battendo sul tempo i concorrenti anglosassoni, la Reuters, l’Associated Press, la United Press. Da allora Ennio Jacobucci diventò un personaggio di rilievo nella folta società giornalistica di Saigon. Ma quando la guerra finì, nel 1975, Ennio fu afflitto dalla malattia del reduce. Fuori dal Vietnam non si trovava a suo agio. Era spaesato. Non riusciva ad abituarsi alla pace. Venne a trovarmi in Portogallo, dove seguivo la “rivoluzione dei garofani” e mi propose di lavorare insieme. Gli spiegai che a Lisbona per avere le notizie si telefonava. Non c’erano battaglie. E lui se ne andò in silenzio. Come se l’avessi respinto. Quando seppi che si era suicidato, impiccandosi, provai un senso di colpa. Ma non potevo organizzare offensive militari per lui. Anche Ennio Jacobucci è stato in fondo un fotoreporter morto in guerra.
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