Perché è andato in crisi il sogno di sentirsi cittadini dell’Unione

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Ma il coro delle lamentazioni eurofobiche è ormai trasversale. Che si tratti di economia o di immigrazione, di sicurezza o di calcio, la colpa è sempre dell'”Europa”. Le virgolette marcano la vastità /vacuità  della sfera semantica riferibile a un termine sovraccarico di esoterismi. Nel senso comune, “Europa” significa burocrazie elefantiache, leader grigi e velleitari, liturgie cui gli stessi celebranti paiono non credere. Né riescono a dissimularlo con l’agilità  di un tempo. I politici che s’impegnano nel tiro all'”Europa” sanno di vellicare un’opinione radicata nella maggior parte degli europei. Per i quali le strutture comunitarie sono più un vincolo che una risorsa. In tempi di profonda crisi economica, quando da Bruxelles o da Francoforte si tende a imporre la deflazione organizzata, non si può pretendere che gli organismi comunitari siano oggetto della venerazione popolare. Ma la sensazione è che se anche Barroso o Trichet distribuissero banconote nelle piazze il deficit di consenso delle istituzioni europee non ne sarebbe appianato. La crisi di legittimazione dell’Unione Europea è accentuata dalla reazione degli europeisti doc. Per i quali l'”Europa” è buona e giusta. Garanzia di pace, benessere, ordine e progresso. Punto. E peggio per chi non coglie l’evidenza. Il problema non è l'”Europa”, ma gli europei che non ne capiscono le meraviglie. E se fra “Europa” ed europei non corre più troppa elettricità , la colpa è dei cittadini non delle istituzioni. Parafrasando Brecht, l'”Europa” ha ragione, gli europei torto: si cambino dunque gli europei. Come siamo arrivati a questo? Con l’implodere delle ambiguità  costitutive della famiglia comunitaria. L’Unione Europea è quello che i suoi Stati membri vogliono o non vogliono sia. Codificata in illeggibili trattati, difatti non letti, in nome della necessità  di mascherare l’assenza di un progetto comune. Ma allo stesso tempo, nella convinzione che questo unicum serva in ultima analisi gli interessi dei suoi soci, ciascuno dei quali pensa di trarne risorse effettive o immateriali di cui non disporrebbe altrimenti. Si tratti di soldi, di status o di entrambi – o anche solo di un “uomo nero” cui attribuire i fallimenti degli Stati nazionali – tale percezione ha tenuto sotto lo stesso precario tetto una famiglia sempre più pletorica ed eteroclita. Oggi questo meccanismo è logoro. La recessione del 2008 ne ha accelerato la crisi e l’ha resa percepibile ai cittadini. I quali sentono di non aver controllo né informazioni sufficienti su istituzioni che ne determinano – o sembrerebbero determinarne – qualità  e prospettive di vita. L’Italia è il paradigma perfetto di tale parabola. Cofondammo l’Europa nella convinzione che fosse il contrario dell’Italia. Efficiente e legittimata tanto quanto non lo era il nostro Stato nazionale. Per questo paese gravato nella competizione internazionale dal cronico deficit di statualità  e dai relativi complessi d’inferiorità , Comunità  e poi Unione Europea furono un tonico formidabile. Col tempo, tanta certezza è evaporata. Sembra infatti che i difetti comunemente attribuiti al nostro Stato – di cui peraltro si è pronti a reclamare il soccorso per i più futili motivi – siano penetrati negli organismi europei. Invece che europeizzare l’Italia, abbiamo italianizzato l’Europa. Come amano farci notare alcuni partner nordici, insofferenti dei trucchi levantini cui indulgeremmo noi euromeridionali – più meridionali che europei, ai loro occhi. Nell’Italia già  eurofila, il clima sta drasticamente mutando. Al punto che l’europeismo nostrano, un tempo dominante per carenza di sfidanti, soffre della sindrome d’assedio. Indisponibili a un’aperta revisione di ciò che non va in Europa – per timore che il tarmato edificio europeo collassi se esposto a pubblico scrutinio – le vestali dell’europeismo acritico negano l’evidenza e così eccitano gli imprenditori dell’eurofobia. Ne deriva un cortocircuito perverso, di cui alla fine facciamo le spese tutti noi europei. Per lunghi decenni, abbiamo potuto coltivare l’utopia dell'”Europa che avanza mascherata”, come amava ripetere Jacques Delors. Non funziona più. Se non le (ci) togliamo quella maschera, ne finiremo presto soffocati. Siamo fermi al bivio. O cediamo all’inerzia, e in tal caso l’Unione Europea farà  – mutatis mutandis – la fine dell’Unione Sovietica. O valichiamo la linea d’ombra e accettiamo di gettare le basi di una vera democrazia europea. Con chi ci sta e senza chi non vi è interessato. Ad oggi, la prima ipotesi è più probabile. Con una possibile variante: essendo le tecnostrutture comunitarie assai più resistenti di quelle sovietiche, non soccomberanno. Sopravvivranno a se stesse. Architetture metafisiche, alla cui ombra i decisori nazionali porranno mano al cappello e pronunceranno a mezza voce formule apotropaiche. Per decidere altrove.


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