by Editore | 4 Aprile 2011 7:29
Come i coach degli attori, possono trasformare un capocosca, un narcotrafficante o un pluriomicida in un paziente «bisognoso di cure speciali». Medici, ma arruolati dalla parte sbagliata, che li preparano a ingannare un giudice. Li allenano a non mangiare, a inventarsi le «voci» nella testa, a vivere le giornate in cella come farebbe un depresso o un potenziale suicida. Fino a somministrare, a quei detenuti camaleonti, i farmaci utili perché si compia la recita della patologia: il male che li renderà incompatibili con il carcere. Può costare 2mila, 5mila o al massimo 50mila euro assicurarsi la complicità di uno psichiatra. Spiccioli, per le finanze illecite. La loro ambiguità era rimasta ai margini della narrazione criminale, epica o austera che fosse. Un libro pieno di fatti si incarica di illuminarne le azioni. Racconta dei traditori di Ippocrate (minoranza silenziosa) che hanno favorito le evasioni e le scorribande di camorra, mafia o Banda della Magliana. Eppure “I medici della camorra” di Corrado De Rosa (Castelvecchi editore, 288 pagg., 16 euro), medico e scrittore 36enne, non è solo un’inchiesta-testimonianza, ma un racconto italiano che illumina i volti dei borghesi per eccellenza, tra i collusi. E denuncia i buchi di un sistema sanitario e penitenziario tendenzialmente a rischio. Un bisturi che affonda. Nel volume – arricchito dagli interventi dei magistrati Raffaele Cantone e Franco Roberti, e dai commenti dello psichiatra Mario Maj e dello psicoterapeuta Girolamo Lo Verso – si sottolinea come l’uso strumentale della malattia colpisca in due direzioni opposte. Sia a favore dei boss che hanno fretta di lasciare le celle, sia contro gli «odiati» pentiti. Pezzi di agghiacciante storia criminale ricostruiti nel dettaglio. Dal caso Raffaele Cutolo, lucidissimo “pazzo” dell’iconografia di camorra, alla terribile fine di Aldo Semerari, il criminologo al quale il padrino Umberto Ammaturo tagliò personalmente la testa in mezzo alle bestie di un macello perché lo specialista aveva osato favorire, con un giudizio truccato, un affiliato del clan avversario. Dai fratelli Francesco e Walter Schiavone, padrini storici dei casalesi entrambi affetti da un’anoressia «che è diventata una sorta di epidemia in quella zona», fino al blitz del 2001 della Procura antimafia di Napoli sull’allora servizio di neuropsichiatria del carcere di Poggioreale. Per non dire del clamoroso caso del superkiller Peppe ‘o cecato (il cieco), quel Giuseppe Setola oggi sotto processo come stragista dei casalesi che, grazie ad una diagnosi di maculopatìa, era riuscito a lasciare il carcere per un centro oculistico di Pavia. Evaso da quelle corsie, Setola torna a Casal di Principe nella primavera del 2008 e con il suo gruppo dà inizio ad un autentico bagno di sangue. Diciotto morti in pochi mesi, innocenti: uccisi a colpi di mitra dal sicario considerato cieco, senza che ancora nessuno abbia presentato un conto ai medici che gli aprirono la cella. Negli stessi giorni, ecco indagati gli specialisti che avrebbero fatto arrivare, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, «compresse a preparazione galenica anfetaminosimili». Per ridurre l’appetito. Il primo pentito a raccontare di una struttura di psichiatri a disposizione è Gaetano Guida, boss a Secondigliano: «Nel caso in cui la perizia veniva disposta dal magistrato, il mio medico, che mi faceva fare lo psicopatico, si informava di chi fosse il perito e lo convinceva a confermare la sua falsa diagnosi. E per questa attività riceveva ogni volta 10 o 15 milioni». Erano gli anni Ottanta. Stessa epoca dei tanti capicosca battezzati con i sinonimi dei disturbi mentali. ‘O pazzo, è soprannome non solo di Cutolo, ma dei boss Michele Zaza, Vincenzo Mazzarella, Michele Senese, Alfonso Perrone, volto di Gomorra a Modena. L’indagine attraversa trent’anni di complicità eccellenti. Sempre per costruire la via di fuga alla giustizia: la testa malata, appunto. De Rosa conosce, d’altra parte, la precarietà degli psichiatri allergici ai compromessi, la maggioranza. E l’affresco che le sue storie compongono non vuole produrre un’invettiva generica e giustizialista. Casomai, porre qualche domanda. Nella galleria dei paradossi, ad esempio, brilla il caso di Luigi Cimmino, boss napoletano che doveva essere bersaglio dell’agguato in cui morì, invece, una madre innocente, Silvia Ruotolo. Cimmino oggi è passato per matto e incassa dallo Stato una pensione di invalidità civile. È il killer della Napoli bene, Rosario Privato, a raccontare: «Cimmino si è sempre finto pazzo, andava in escandescenza, ci raccontava che entrava in questura e gridava: «Ma ora io che ci faccio qui?»». Riflette De Rosa: «Com’è possibile assegnare una pensione di invalidità a una persona condannata a 8 anni in via definitiva per associazione mafiosa e che rimane in carcere per anni? Eppure la pratica 755/2009 della municipalità riconosce a Cimmino perfino gli arretrati dal 2007». La dedica de «I medici di camorra» amplifica il valore di un’inchiesta che dovrebbe turbare più a lungo la società civile. È un pensiero rivolto agli altri: «A chi soffre realmente di un disturbo mentale».
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