Palestina, l’aiuto al de-sviluppo

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 – Perché quelle case, ha visto?, costringono a un lungo giro. Magari di inverno, nel fango.

– Case. Nel senso: l’insediamento.
– Non taglieremmo molti alberi. Giusto una striscia. Dritta, fino alla scuola.
– Tra l’altro, a essere precisi, non è neppure un insediamento, è un avamposto. Illegale anche per la legge israeliana.
– Insomma, ha capito: dopo quel pino, sulla sinistra. Quelle case lì. Si fa un’altra strada, e il problema è chiuso.
– Temo che il problema, in realtà , sia l’occupazione.
– Ma queste sono questioni politiche: io sono un tecnico. Poi è tutto finanziato dall’Unione Europea. A voi costa zero.
– Costa ancora meno riaprire ai palestinesi la strada che già  esiste.
– Guardi, io sono solo un tecnico. Sono qui solo per risolvere un problema. Solo per aiutare quei bambini.

La diplomazia dell’assegno. A quelli di corsa come Iako, professionisti della solidarietà , una riunione sulla Palestina, la prossima sul Giappone, è sempre difficile spiegare che asfaltare una strada, sulle colline di Hebron, non significa solo migliorare la libertà  di movimento dei palestinesi.

La comunità  internazionale è parte integrante del processo di Oslo. L’idea è che Israele, progressivamente, trasferisca il controllo dei Territori Occupati all’Autorità  Palestinese, responsabile della gestione degli affari civili, e soprattutto, del mantenimento dell’ordine pubblico fino alla conclusione di un accordo definitivo: e i donatori sono chiamati a fornire le risorse necessarie a creare le nuove istituzioni di autogoverno – a garantire stabilità  e sviluppo e distribuire, per dirla con Shimon Peres, i dividendi della pace.

Ma l’aiuto internazionale, in realtà  – i soli versamenti da stato a stato: due miliardi di dollari nel 2010, a cui aggiungere centinaia di progetti di cooperazione – è stato concepito a sostegno della pace, più che dello sviluppo in sé. Come una leva, cioè, per disincagliare i negoziati nei momenti di crisi.

Secondo l’approccio di Oslo, infatti, la premessa per il riconoscimento di uno stato palestinese indipendente e sovrano è la fiducia: ma una fiducia intesa come sicurezza degli israeliani. Di qui la scelta di destinare larga parte delle risorse alle forze di polizia, in nome di una interpretazione esclusivamente militare, oltre che unilaterale, della sicurezza: garantire incolumità  agli israeliani, invece che libertà  e lavoro ai palestinesi. Dall’inizio cioè, l’obiettivo dell’aiuto internazionale è stato il consolidamento politico, più che economico e sociale, dell’Autorità  Palestinese: il consolidamento del potere di Arafat con l’8 percento del bilancio riservato a non troppo identificate spese presidenziali e molto altro denaro, a partire dai proventi delle importazioni di gasolio e cemento, versato su conti privati sottratti a qualsiasi controllo, perché Arafat potesse comprarsi consenso e lealtà  e emarginare i gruppi più radicali – senza vincoli contabili, ma anche giuridici: ed è così che il mantenimento dell’ordine pubblico è presto precipitato in repressione del dissenso.

Per Hans Kelsen, la pace avrebbe dovuto fondarsi sul diritto e la giustizia, peace through law – di Oslo si potrebbe dire, invece: peace through money. Da allora, ogni palestinese ha ricevuto in media 200 dollari l’anno di aiuto internazionale. Eppure, i medici si imbattono sempre più frequenti nei sintomi della malnutrizione.

De-sviluppo. Il sistema di Oslo prevede un’unione doganale tra Israele e i Territori Occupati, e libertà  di movimento per i lavoratori. Con il risultato che i palestinesi importano da Israele per il 73 percento, e per il 92 percento esportano verso Israele: i cui prodotti, mediante tasse e dazi, dominano il mercato, invariabilmente più competitivi. Quanto ai lavoratori, però, Israele ha sigillato le sue frontiere: e sostituito i palestinesi, che prima di Oslo guadagnavano in Israele i due terzi del proprio reddito, con gli immigrati russi.

E oltre a separare arabi e ebrei, ha separato i palestinesi dai palestinesi: ha istituito passo a passo il sistema dei check-point e delle autorizzazioni, restringendo la libertà  di movimento in una Cisgiordania sempre più frantumata dall’espansione degli insediamenti – raddoppiati da Oslo. Una matrix of control, secondo la definizione di Jeff Halper: una ragnatela di ostacoli fisici e amministrativi, con l’obiettivo di intrappolare, paralizzare la popolazione, fino al collasso economico e sociale. Persino la Banca Mondiale, con il suo lessico generalmente afono, ha denunciato le violazioni della libertà  di movimento come la miccia della crisi.

Ma è una crisi affilata da responsabilità  internazionali. Lo sviluppo, gli investimenti non richiedono solo infrastrutture, ma anche un sistema giudiziario affidabile, servizi amministrativi efficienti. L’Autorità  Palestinese, invece, non solo è stata equipaggiata di poteri limitati e soprattutto tronchi, con l’ultima parola monopolio di Israele mediante una serie di comitati congiunti e diritti di veto che sostanzialmente riformulano l’occupazione in termini di cooperazione: ma prima ancora, nessuno ha calcolato le conseguenze del clientelismo – una Autorità  Palestinese esemplare per approssimazione, improvvisazione corruzione: autorità  perché autoritaria, non perché autorevole.

Perché il clientelismo contribuisce forse alla stabilità : ma sguinzaglia a dismisura la spesa pubblica, antepone la fedeltà  alla competenza, incentiva il ricorso al divide et impera: avvelena il clima politico e sociale con diseguaglianze sempre più profonde, e meno giustificabili, tra gli integrati e gli esclusi, che si ritrovano confinati all’esterno del sistema senza possibilità  di riformarlo, e dunque senza altra opzione che tentare di rovesciarlo. Tra l’altro, l’élite asserragliata a Ramallah gode di una molteplicità  di immunità  e privilegi, a partire dalla libertà  di attraversare frontiere e check-point: la percezione dell’occupazione scolora, e così la determinazione a combatterla: la crisi che inevitabile si profila non è solo fiscale e finanziaria, non è solo di governo ma anche di democrazia. Di legittimazione politica e coesione sociale.

Oltre il 40 percento dei palestinesi vive oggi in una condizione di insicurezza alimentare, per usare le anestesie verbali della comunità  internazionale. Ma l’insufficienza di cibo è affrontata come una questione tecnica o naturale: l’originario rapporto di 7:1 in favore dell’aiuto allo sviluppo si è ribaltato in un rapporto di 5:1 in favore dell’assistenza umanitaria: la gestione quotidiana dell’emergenza ha scalzato l’edificazione di lungo periodo delle istituzioni politiche e economiche dell’indipendenza – e la parola crisi ha sfrattato la parola occupazione, con una progressiva decontestualizzazione della povertà . Il problema non è la mancanza di cibo, di acqua di medicine: il problema è l’impossibilità  di coltivare i propri campi, trivellare un pozzo, raggiungere un ospedale. E non è questione di strade, ma di diritti.

De-democratizzazione. Impostato a sostegno della stabilità , l’aiuto internazionale ha finito per espropriare i palestinesi della titolarità  del processo di sviluppo, cumulandosi all’occupazione nel minare il loro diritto all’autodeterminazione: il loro diritto a perseguire liberamente, cioè, il proprio sviluppo politico ma anche economico, sociale e culturale. Sono i donatori, infatti, a decidere dove, come, quando investire risorse spese ufficialmente nel loro interesse, senza la minima partecipazione e la minima trasparenza. Senza, soprattutto, rispondere delle proprie azioni a livello locale.

Caratterizzata dalla compresenza di cristiani, ebrei e musulmani, e dunque tendenzialmente laica e pluralista, forgiata da influenze di ogni genere sulle orme dei pellegrini, la società  civile palestinese è storicamente tra le più vivaci del Medio Oriente. E l’occupazione non ha che rafforzato il suo dinamismo: perché assenti le istituzioni, banditi partiti e elezioni la vita quotidiana è stata curata e sostenuta, nelle sue mille necessità , da una miriade di associazioni e sindacati che hanno non solo assicurato servizi indispensabili alla sopravvivenza, ma anche rappresentato luoghi di confronto e espressione – di democrazia. Il sistema di Oslo ha incuneato invece tra società  e istituzioni un nuovo strato di operatori internazionali, con il risultato di atrofizzare le pratiche di autogestione: in nome adesso di esigenze da soddisfare, invece che capacità  da costruire e potenziare.

Anno dopo anno, i palestinesi si sono ritrovati confinati alla manovalanza di piani di sviluppo elaborati altrove: costretti a inseguire finanziamenti di progetto in progetto e adeguare le proprie idee, le proprie priorità  ai tempi e alle condizioni delle risorse offerte, senza alcuna flessibilità , e soprattutto, senza più alcuna strategia di lungo periodo – senza riflessioni, discussioni larghe e pubbliche, senza deliberazioni condivise. Moltissime risorse finanziarie e umane, poi, sono bruciate in attività  amministrative: ospitare delegazioni, scrivere rapporti che nessuno legge, tradurre da una lingua all’altra tranne che in arabo e ebraico, pagare consulenti stranieri spesso di misteriosa competenza e utilità  – occuparsi della sopravvivenza dei cooperanti, insomma, più che dei cooperati: fino a riscoprirsi vincolati ad acquistare ogni singola matita, ogni singolo mattone dal paese donatore, o persino da Israele: tarlando quello sviluppo locale che si proclama di incentivare.

Tra l’altro, le risorse sono stanziate in base a calcoli arbitrari, e si rivelano il più delle volte non poche ma troppe: sono tanti, tra gli internazionali come tra i palestinesi, quelli che si inventano operatori sociali solo per assicurarsi uno stipendio: con una frammentazione, una dispersione, una concorrenza feroce che minimizzano l’impatto anche delle migliori iniziative. L’obiettivo, in definitiva, diventa attrarre e soddisfare i donatori, invece che contribuire allo sviluppo economico e sociale – e non mancano vere e proprie frodi e pubblicità  ingannevoli.

Nei primi dieci anni di processo di pace, per esempio, sono state fondate 186 nuove cliniche, e 750mila palestinesi hanno ottenuto accesso alle cure mediche. Un risultato certo positivo, per chi sfoglia i rapporti patinati dei donatori: che omettono di specificare che la popolazione però, negli stessi anni, è aumentata di 1,8 milioni di persone: e che dunque in termini percentuali, invece che assoluti, l’accesso alle cure mediche è diminuito del 31 percento.
Quando Hamas ha vinto le elezioni, poi, l’ammontare dell’aiuto internazionale è crollato, fino all’embargo. Dimostrando oltre ogni ragionevole dubbio quanto l’aiuto straniero sia sinonimo di controllo straniero.

L’occupazione sostenibile. In tutti questi anni l’aiuto allo sviluppo, in realtà , è stato utilizzato per oliare un processo di pace di cui Israele non ha mai davvero accettato l’obiettivo ultimo, e cioè uno stato palestinese indipendente e sovrano: Israele ha tentato semplicemente di riformulare l’occupazione, per una gestione, non una soluzione, del conflitto – in un processo di appeasement, più che di pace.

E l’aiuto internazionale ha finito così per sussidiare l’occupazione: abbatterne il costo economico, e anche politico, fornendo ai palestinesi una sorta di rete minima di protezione economica e sociale – uno strangolamento controllato, nei limiti della sensibilità  dell’opinione pubblica occidentale. Il diritto internazionale, al contrario, è inequivoco: le convenzioni di Ginevra obbligano Israele a soddisfare le esigenze basilari dei palestinesi, e risarcire i danni causati – non è compito europeo ricostruire Gaza dopo l’Operazione Piombo Fuso: il compito europeo è trascinare i responsabili in tribunale. Altrimenti, non si è che complici: si consente la continuazione dell’occupazione, rafforzando non la capacità  di cambiamento, ma di adattamento.

Il sostegno economico e il negoziato politico non sono mai stati coordinati in una strategia unitaria e coerente. E in un contesto istituzionale così cariato, di scarsa efficienza e nulla legittimazione, i finanziamenti sono denaro sprecato: sono solo il compiacente sostituto della volontà  di misurarsi con i veri ostacoli alla pace. Molte organizzazioni internazionali, governative e non governative, sembrano ormai avere quasi interesse a foraggiare la crisi, senza la quale non potrebbero ottenere le risorse necessarie a combatterne gli effetti – a esistere.

In assenza di una solida intelaiatura politica, l’aiuto allo sviluppo ha un potenziale limitato: e rischia persino di rivelarsi controproducente – parte del problema, invece che della soluzione. Soprattutto se è in realtà  Israele a essere il maggiore beneficiario dell’aiuto internazionale. Ai contributi della diaspora ebraica e ai risarcimenti per l’Olocausto, si sommano i finanziamenti degli Stati Uniti: circa 3 miliardi di dollari l’anno, di cui due terzi di aiuto militare. Per bombardare quello che la comunità  internazionale, solidale, ricostruirà .


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