Misurata: a colpi di kalashnikov e mortaio

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Sulla terrazza all’ultimo piano sventola la bandiera della rivoluzione ed i cecchini “dell’esercito improvvisato” stanno in posizione di tiro senza abbassare la guardia. “Questo palazzo – racconta Mohamed – oramai è sicuro. Già  ieri sera era conquistato, ma abbiamo aspettato ad entrare per non correre rischi. Adesso”, dice mostrando con il dito la parte Sud della città , “possiamo vedere l’ospedale dove si nascondono le milizie di Gheddafi”. Ma “sicuro”, o “safe”, come vanno ripetendo i giovani ribelli, è un concetto relativo. Appena scendiamo gli 11 piani e mettiamo i piedi fuori dalla porta un colpo di mortaio colpisce il tetto, un centinaio di metri più avanti, di quelli che erano gli uffici della compagnia telefonica libiana. La fumata nera e la corsa dell’autista verso la parte Nord della città  ci ricorda che per adesso, a Misurata, non ci sono luoghi sicuri.

Attorno a Tripoli street i check point dei ribelli sono ben organizzati. Sono riusciti a portare sabbia e container per proteggersi dagli spari e nei punti più sensibili ci sono anche sbarre metalliche che vengono alzate esclusivamente per guerriglieri, dottori e giornalisti. Ogni angolo delle strette strade è presidiato da ragazzi armati di mitragliatrice. Sahed ci invita nel suo appartamento. La casa su due piani è una caserma. Dentro, nella sala da pranzo, i divani sono occupati da munizioni, kalashnikov e fucili di precisione. La televisione è sintonizzata su Al-Jazeera che trasmette in diretta da una delle tante postazioni dell’esercito ribelle in Tripoli street.

Ad ogni colpo sparato i ragazzi all’interno urlano Allah akbar. “Ti sembra che questa sia Al-Qaida”, mi dice ridendo. “Guarda questi giovani , non hanno la faccia di Bin Laden?”, esclama ridendo. “Siamo tutti studenti – mi dice Ahmad – che prima di questa rivolta passavano le loro giornate all’Università ”. “Prima di prendere il mitra ho manifestato per un mese pacificamente. Chiedevamo democrazia e libertà . Ci hanno sparato, hanno ammazzato la nostra gente. Ho perso cinque amici in questi mesi”, continua a raccontare con la rabbia che si legge nel volto “e allora non ho avuto altra scelta per difendere la mia città  e la mia famiglia”. “Quell’uomo – dice ancora parlando di Gheddafi – è come Hitler”. “Oggi – è l’ultima frase prima di prendere il suo fucile di precisione e partire per la battaglia – il mio unico sogno è vederlo morto”.

Ma nonostante sul fronte della guerra la situazione per i ribelli migliora, sul fronte umanitario Misurata è ancora piegata. L’ospedale, una clinica privata riadattata ad ospedale per le emergenze, è un continuo andare e venire di ambulanze cariche di morti e feriti. “Abbiamo ricevuto 73 feriti e 6 morti”, racconta un dottore mentre esce dalla sala operatoria con il camice pieno di sangue. Sono le 9 di sera e la battaglia non è ancora terminata. Ogni tanto i colpi di mortaio arrivano così vicino che gli sguardi di dottori e civili che sostano nella piazzola sul retro vanno verso il cielo.

Nelle tende per le emergenze i dottori aspettano nervosi i pazienti. “Questo è Gheddafi”, ripetono ai giornalisti che sostano nell’area. Nell’angolo un ragazzo è in rianimazione. La barella dove è sdraiato è piena di sangue ed i dottori cercano di riportarlo in vita. Ma dopo oltre 20 minuti di massaggio cardiaco il telo marrone viene steso. È l’ennesimo ribelle morto in Tripoli street, dove si combatte casa per casa.


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