Maserati o l’abbandono. L’ex Bertone va al voto

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TORINO— Le carrozzerie ex Bertone sono centomila metri quadrati di desolazione. Al cambio turno delle 13 la fabbrica è deserta. L’attesa ai tornelli dell’uscita di corso Allamano risulta vana. Non passa nessuno. Ogni tanto la sconfinata distesa di capannoni ai bordi di Grugliasco viene visitata da pochi impiegati e da addetti alla manutenzione chiamati a combattere i segni lasciati dal tempo su macchinari che da anni si accendono solo per dare prova di esistenza in vita. Le fabbriche vuote mettono tristezza, non c’è bisogno di essere Karl Marx per dirlo. Sei anni di cassa integrazione hanno creato un velo opaco su stabilimenti che fino a poco fa rappresentavano una bella storia dell’industria italiana. Eppure l’ultimo duello tra «l’americano» Sergio Marchionne e la Fiom va in scena qui, al termine di un rettilineo che da Mirafiori conduce oltre la cinta daziaria di Torino. Proprio a ridosso del centro commerciale «Le Gru» dove nell’ottobre 1993 Silvio Berlusconi cominciò la sua discesa in campo. Ci sarà  un referendum, un altro. Una versione in minore dello scontro andato in scena lo scorso gennaio a pochi chilometri da qui, ma con un maggior retrogusto di disperazione. Perché a decidere della propria sorte saranno chiamati lavoratori senza più lavoro dal 2005. La Fiat, nuova proprietaria, ha destinato alle Officine automobilistiche Grugliasco, questa la nuova sigla sociale, un investimento di 500 milioni di Euro per la produzione della Maserati, subordinandola a una vittoria del «sì» alla consultazione sull’accordo firmato a Pomigliano d’Arco nel 2009 che regola tempi, ritmi delle produzioni e delle sue pause. Il copione non necessita alcuna riscrittura, è lo stesso del referendum su Pomigliano e Mirafiori. Basta guardare le ultime dichiarazioni. Marchionne: «Il rischio che l’investimento venga fatto all’estero è concreto» . I sindacati favorevoli al «sì» : «Occorre tutelare il lavoro» . La politica locale, per bocca di Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, si muove con la consueta cautela tendenza Fiat: «Inutile andare avanti a colpi di forzature, ma è inaccettabile il rischio di una produzione fuori dall’Italia» . La Fiom non dà  indicazione di voto e cerca di inventarsi una mossa a sorpresa, da qui al 2 maggio, giorno del nuovo referendum. Alla ex Bertone i numeri giocano contro il sindacato dei metalmeccanici proprio perché sono favorevoli. Alle ultime votazioni per le Rsu ha avuto il 64%. Questa volta potrebbero esserci problemi a cavalcare il concetto dell’onorevole sconfitta. Si rischia di vincere, assumendosi una responsabilità  tremenda. E così, da un paio di mesi almeno, la dizione «ex Bertone» è entrata nel circolo dei notiziari, sigla oscura che sembra mettere in liquidazione una storia esemplare, nel bene e nel male. «Ci sentivamo diversi dalla Fiat. Con l’azienda c’è sempre stato dialogo. Abbiamo trovato buoni accordi. E poi c’era l’orgoglio. Facevamo macchine stupende» . La malinconia di Pino Viola, con i suoi 55 anni il più anziano rappresentante sindacale della Bertone, è data dalla consapevolezza che il meglio è passato. Giovanni Bertone era un battilastra che non si rassegnava all’idea di una vita tutta incudine e martello. Nel 1912 scese dalla sua Mondovì per aprire una carrozzeria a Torino. La bottega diventa fabbrica a partire dal 1944, quando in azienda arriva Nuccio, suo figlio. Negli anni della ricostruzione il Bertone di seconda generazione coglie al volo la voglia di riscatto che si respira nell’aria. La Giulietta Sprint Alfa Romeo da lui disegnata diventa la vettura sportiva dell’Italia del boom; poi il sarto delle macchine disegna la Ferrari Dino 308 GT4, ancora oggi la «rossa» costruita nel maggior numero di esemplari. Quando l’automobile cessa di essere un lusso, si inventa la Fiat 850 Spider. Arriveranno poi la Lamborghini Miura, la Lancia Stratos e altri modelli innovativi. Nuccio muore nel 1997, a 83 anni. Lascia un’azienda in salute. In quei giorni la Bertone ha in tasca le commesse di Fiat e Opel per Punto e Astra Cabrio. Nel 2001, in un mercato già  ristretto per tutti, l’azienda di Grugliasco fattura 640 milioni di Euro e tocca il picco di occupazione con 2.450 dipendenti. Poi viene giù tutto. Il declino è rapido, inesorabile. La Opel manda la disdetta, non le servono più gli impianti e il design Bertone, la Fiat si riprende i suoi marchi. La lotta per la sopravvivenza si sovrappone a un esempio di mancato passaggio generazionale, specchio del capitalismo familiare d’Italia. Lilli, vedova di Nuccio, si mette contro le figlie Barbara e Marie Jeanne, veti reciproci e divieti di accesso a uno stabilimento che porta il loro nome. La fine è nota. Amministrazione controllata, nel 2009 vendita alla Fiat, da sempre interessata a quegli stabilimenti così moderni. Restano 1.092 lavoratori, 300 dei quali collocati in aziende satelliti. Pino Viola allarga le braccia quando gli chiedono di fare una previsione. «Il referendum? Nessuno sa come andrà . C’è tanta gente che non vediamo da un sacco di tempo, quasi non ci conosciamo più» . Forse è la logica conclusione di uno scontro frontale, forse è l’ennesimo paradosso dell’industria italiana. Dal 2 maggio torneremo tutti a intervistare operai, a chiedere come voteranno. Ai cancelli di una fabbrica chiusa da sei anni.


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