Lutti e passioni il senso di Carrère per l’amore
A ciascuno di noi è accaduto di pensarlo: poteva succedere a me; io avrei potuto esserci. Basta una frazione di secondo, una deviazione di percorso, una contingenza minima per immetterci in una repentina e devastante cognizione del dolore. Poi tutto sarà diverso: gli odori, i colori, le immagini; naturalmente le emozioni; e anche la scansione del tempo non sarà più la stessa. Mettiamo una giovane coppia di francesi armoniosi e innamorati, Jérà´me e Delphine, con un’incantevole figlia di quattro anni, Juliette. Un piccolo presepe contemporaneo e glamorous. Nel 2004 sono a Sri Lanka per trascorrere il Natale. Juliette gioca sulla spiaggia e attorno a lei pulsa una natura calma e indifferente. Sprazzi di canti di uccelli tagliano l’aria. Di colpo una sospensione muta, come se il cielo tenesse il respiro. E l’onda monta per ingoiare tutto, anche Juliette, presa da quel colossale muro d’acqua che risucchia corpi e oggetti a una velocità pazzesca. Saettano mobili, animali, travi, alberi, macchine e blocchi di cemento, come nella scena d’apertura di Hereafter di Clint Eastwood. Nel libro Vite che non sono la mia, uscito in Italia in questi giorni dopo aver ottenuto un successo straordinario in Francia, dove nel 2009 dominò per mesi le classifiche dei best-seller, Emmanuel Carrère, amato in patria come uno scrittore di culto e già autore di feroci e celebrati viaggi nel realismo (L’avversario, La vita come un romanzo russo), ci narra con minuzia anatomica la morte: quella improvvisa di una bambina, dal punto di vista dei suoi annichiliti genitori; e quella di un’altra Juliette, adulta e madre, con una fisionomia e una storia lontane dalla sua omonima divorata dallo tsunami. Vite che non appartengono a Carrère, il quale, a nostro uso, funge da testimone. Decidendo di osservarle come in un lungo diario, senza ridondanze né meditazioni psicologiche, con semplicità oggettiva e concretezza da reporter. Ma la lucidità del dettaglio è maniacale, ed è questa ossessione distaccata e lancinante a far volare in alto la cronaca: Carrère domina la messa a fuoco dei particolari come un pittore fiammingo. In quel Natale del 2004 anche lui, con la compagna Hélène, è in vacanza a Sri Lanka. La loro relazione è in crisi, stanno parlando di lasciarsi. La strage causata dall’onda scioglie ogni conflitto spicciolo, e i due si trovano a diventare i supporti del calvario di Jérà´me e Delphine, che subiscono la scomparsa della figlia. La vertigine di quella perdita è mascherata dall’affanno di incombenze pratiche. Urge trovare il cadavere, va riportato a casa. Ricerca assurda nella sua crudeltà , costretta a muoversi sullo sfondo di visioni da incubo e di cattedrali di corpi tumefatti dall’acqua. E’ in questo tuffo nella sofferenza altrui che il nostro fanatico documentarista avverte il suo legame con Hélène, inascoltato fino a poco tempo prima. Guarda la stanca nudità di lei, sotto la doccia, e percepisce che cosa vuole dire amarla. Non prova desiderio, «ma una pietà straziante, un bisogno di prendersi cura, di proteggere, di conservare. Pensavo: oggi potrebbe essere morta. Mi è preziosa. Talmente preziosa. Vorrei che un giorno fosse vecchia e floscia, e continuare ad amarla». Quando tornano in Francia, Hélène scopre che sua sorella Juliette ha di nuovo un tumore. Da adolescente ne ha già avuto uno che l’ha resa zoppa. Stavolta è nel seno, con metastasi nei polmoni. Questa seconda Juliette fa il giudice e lavora con Etienne, che ha avuto il cancro come lei ed è rimasto sciancato. Etienne ha un’intensa complicità con Juliette. L’aver sentito da ragazzi lo stesso panico di morte, l’essere cresciuti entrambi nella menomazione, ha generato un’ansia condivisa di riscatto. Sono ancorati al versante dei perdenti. Per questo li difendono con strenuo accanimento. Nel loro tribunale di provincia fronteggiano usure, pignoramenti bancari e contratti-capestro che schiacciano la parte debole dell’umanità , quella più indigente e confusa. Juliette è sposata con l’innamoratissimo Patrice e ha tre bambine. Morirà a trentatré anni tra le braccia del marito, che è l’incarnazione della fiducia e del candore. Anche qui, come nel reportage da Sri Lanka, c’è un io narrante che segue e registra con accuratezza gli tsunami emotivi ai quali assiste, ricostruendoli passo dopo passo per filmare nel tramite della scrittura (Carrère è anche sceneggiatore e regista) i destini della Juliette adulta e del suo collega-amico Etienne, burbero magistrato con una gamba sola. Si pensa molto alla Susan Sontag di “Davanti al dolore degli altri”, riflessione etica nella quale la saggista americana s’interrogava sulle motivazioni di chi fruisce di immagini strazianti. E non a caso Carrère, in un passaggio di questo suo libro profondamente vitale – vitale perché è la storia di una sorta di resurrezione in terra – cita la Sontag evocandone il bellissimo Malattia come metafora, testo fondamentale sul significato psichico del cancro. Cita anche Freud, che definiva la salute mentale come capacità di amare e lavorare: nel vortice tragico di quelle vite che non sono la sua, Carrère giunge a consegnarci un senso forte dell’amore, e del lavoro di scrittura, con tormentosa e avvincente spiritualità .
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