by Editore | 3 Aprile 2011 6:56
MINAMI SOMA – Katsunobu Sakurai, sindaco di Minami Soma, era stato chiaro. «Qui lo tsunami deve ancora cominciare. Quello che è successo finora è nulla, rispetto a quello che succederà ! Venite a trovarci e vedrete con i vostri occhi la tragedia che stiamo vivendo». L’appello, dieci lunghi minuti affidati a Youtube, era rivolto anche e soprattutto alla stampa, colpevole di informarsi al telefono per paura di essere contaminata. Noi eravamo in zona, siamo andati a trovarlo. E abbiamo avuto più fortuna del collega del Times, che incrociamo sul piazzale del municipio. «Pare sia occupato, oggi non può riceverci», ci dice il collega, che viene da Pechino. Noi ci proviamo lo stesso. Lavorare per la televisione, a volte, aiuta. Anche se è difficile che, apparendo su Sky Tg24, la gente di Minami Soma possa trarne un vantaggio immediato. Alla fine però la parola magica è quella del Manifesto. Già perché Katsunobu Sakurai è un vecchio (si fa per dire, ha 56 anni) compagno, avido di Gramsci e innamorato di Berlinguer, che a suo tempo ha anche conosciuto. E così, ci riceve immediatamente, omaggiandoci di una copia di Akahata, l’organo del Pc giapponese il cui segretario, Kazuo Shii, ha nei giorni scorsi «estorto» al premier Kan l’impegno a rivedere l’intero piano energetico nazionale. Minami Soma, 70 mila abitanti di cui 50 mila, al momento, «in stato di necessità », come lo stesso Sakurai li definisce, si trova nella zona a cavallo tra i 20 e i 30 chilometri dalla centrale. Un comune vastissimo, diviso in due. Da una parte la vita, pur tra mille difficoltà , continua. Dall’altra è finita. «Ma ci sono ancora molte persone che ci vivono – spiega Sakurai, che ci riceve nella sala consiliare trasformata in deposito di derrate alimentari – persone terrorizzate che non osano mettere la testa fuori di casa, ma che oramai non hanno più viveri per andare avanti». Il problema, spiega Sakurai, è il divieto (che in realtà è un consiglio, in quanto non viene applicato in modo coercitivo) di uscire. «Non solo la gente non esce di casa, nessuno vuole portar loro cibo e altre forme di assistenza. Siamo stati costretti a lanciare un appello, chiedendo ai volontari di venire comunque qui, assumendosene la responsabilità , e darci una mano». Un po’ come quello che succede per i molti cadaveri (qualcuno dice mille, ma si tratta di numeri non confermati) che ancora sono abbandonati sulle coste di Fukushima. Cadaveri che nessuno vuole toccare e che stanno marcendo perché si ritiene possano essere radioattivi. «Il nostro tsunami, quello da sempre annunciato e oramai vicinissimo, si chiama centrale nucleare» spiega il sindaco. Non capita spesso di sentire un giapponese, tantomeno con incarico pubblico, parlare così. «Lo so che la stragrande maggioranza dei giapponesi, compresi quelli che in questo momento soffrono a causa del terremoto e dello tsunami dell’11 marzo, la pensano in modo diverso. Per loro l’emergenza è un’altra, e posso capirli. Molti non vedono l’ora che la centrale riparta, perché ne collegano l’esistenza alla corrente elettrica, che in molte zone manca ancora. Ma non si rendono conto che la centrale non è la soluzione del problema. E il problema». Non ha tempo, e se ne duole, il sindaco, per portarci all’interno della zona evacuata (si fa per dire, avevamo già verificato, il giorno prima, che c’è gente che ancora ci vive), e tantomeno alla centrale dove, oramai da tre settimane, un’armata brancaleone fatta da dirigenti senza scrupoli, esperti improvvisati (ai quali nelle ultime ore si sono aggiunti, non si capisce bene in che numero e «peso», i francesi dell’Areva), «volontari» più o meno precettati e lavoratori «a perdere», gli oramai famosi «zingari nucleari» disposti a farsi contaminare pur di avere un lavoro. Cerca di ritardare l’Apocalisse, per «locale» che sia o sarà , annunciata e probabilmente già iniziata. «Pensavo di farci un salto io, alla centrale – spiego al sindaco ben sapendo di provocarlo – visto che tra un po’ arriva il premier Naoto Kan, a portare la sua solidarietà …». «Lascialo perdere quello. Sai come lo chiamiamo oramai? Sokkari-kan (sorta di onomatopeismo che da il senso della vacuità , ndr). Se aspettiamo lui stiamo freschi. E poi, non va mica alla centrale, va al J-Village, a fare la passerella con le autorità locali e con quei farabutti della Tepco. Se avesse coraggio la farebbe subito la nazionalizzazione. Le nazionalizzazioni non si annunciano. Si fanno». Dispiaciuti, ma non troppo, di aver fatto arrabbiare il sindaco, decidiamo di andarci noi, alla centrale maledetta. Toccata e fuga, tanto per vedere che aria (nel vero senso della parola) tira, visto che il premier Kan si ferma a una trentina di chilometri, al J- Village appunto, la «Coverciano» del Giappone che per il momento ha sfrattato Zaccheroni e i suoi «samurai blu» (la chiamano così la nazionale di calcio, qui). Indossata la tuta bianca radioprotettiva rientro nella zona «proibita», dopo essermi aggiornato, sul sito on line del governo, sui livelli di radiazione. Andiamo dagli 0.9 microsievert l’ora da dove siamo, a Minami Soma, a 98 mcrosievert l’ora al cancello della centrale (ieri erano più di 100). Considerato che sono in macchina e in tutto ci metterò, tra andata e ritorno, un paio di ore, si può fare. (Al ritorno mi farò sottoporre a un controllo, se sembra tranquillizzante, ho accumulato appena 5.5 cpm, in poche ore, mi dicono, non resta traccia). La zona evacuata è assolutamente di «Libero accesso». Ora è sparita anche la pattuglia di polizia che c’era ieri. Solo cartelli, francamente ridicoli «Zona pericolosa. Accesso regolamentato» (non «vietato»!). Cerco di non fermarmi, anche se è difficile, ogni tanto, non restare colpiti dai segni della triplice sciagura. Questa è la zona del Giappone che le ha subite tutte e tre: terremoto (che ogni tanto si fa sentire), tsunami ed emergenza nucleare. Il risultato è un deserto di macerie, sul lato mare, ma anche di una vita interrotta, sospesa, una sorta di «fermo immagine». C’è un vento fortissimo, che fa muovere tutto, ma non c’è vita. Perfino gli alberi sembrano finti. Nessuno, ma proprio nessuno, per strada. Qualche veicolo, ne ho contati una decina chiaramente «privati», tutti gli altri, un andirivieni continuo di camion, pulmini, veicoli militari, procedono a passo d’uomo. Tutti quelli che vedo hanno le tute, più o meno come la mia, che qualcuno nota per il suo «design» (viene dall’Esercito italiano). Mi accorgo tuttavia di avere una mascherina un po’ leggera, e di non avere fissato con il nastro adesivo le varie giunture. Me lo fa notare un vigile del fuoco a cui chiedo di verificare il livello di radiazione, a 15 chilometri dalla centrale, siamo a 8 microsievert l’ora. La centrale, nascosta come tutte le centrali nucleari del Giappone (ci sarà un motivo) mi appare all’improvviso. E in fondo a un lungo viale alberato, curatissimo. In tempo di «pace», le centrali fanno di tutto per migliorare la loro immagine, e ricevono migliaia di visitatori. Ma ora siamo in guerra. Mi accodo, per non farmi vedere fino all’ultimo, dietro a un pulmino di «zingari». Li ho visti cambiarsi e bardarsi in un piazzale, e li ho seguiti, anche per non sbagliare strada visto che il navigatore mi segna percorsi non più praticabili. A cento metri dai cancelli mi fermo. Vado avanti? Gli agenti di guardia mi hanno già notato, mi fanno cenno di avanzare. Già . E che gli dico? Che voglio farmi un giro all’interno? E se poi mi trattengono, quanti cpm mi becco? Meglio di no. Giusto il tempo di fare un po’ di riprese, a prudente distanza e senza scendere dalla macchina e, mentre stanno già venendo verso di me, mi dileguo. Non si sa mai. Senza veicolo di riferimento davanti, sulla via del ritorno mi perdo più volte, il navigatore è impazzito, segna strade che non ci sono e forse non ci saranno ma più. Finisco perfino in una fattoria. Ci sono dei cavalli, chiaramente abbandonati. Ma ancora chiusi, nel recinto. Hanno lo sguardo triste, tristissimo. Se le stanno beccando tutte le radiazioni, sin dal primo giorno. Non ci penso due volte. Scendo dalla macchina, e apro il recinto. Se devono morire, che muoiano liberi.
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