L’odissea di Asha

by Editore | 8 Aprile 2011 6:10

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È una miracolata a tutti gli effetti e la sua seconda vita comincia da qui, dal letto numero 13 del reparto di ginecologia dell’ospedale Cervello di Palermo, dove è stata trasferita l’altra sera dopo il salvataggio, avvenuto a quaranta miglia da Lampedusa. Anche suo marito, Salad, 26 anni, somalo pure lui, è vivo per miracolo. Anche l’uomo è stato portato nell’ospedale palermitano, ma le sue condizioni ieri mattina erano ritenute buone, quindi è stato già  dimesso. «È stato lui a salvarmi dalla morte», dice Asha, e inizia a raccontare. «Era ancora buio quando il mondo ci è venuto addosso, saranno state le cinque del mattino. Le onde erano altissime, erano così violente che la barca è stata sommersa dall’acqua, era diventata un lago. Eravamo nel panico, disperati,ma il mare non dava tregua. Abbiamo visto arrivare i soccorritori,ma è arrivata un’altra onda ancora più forte che ha spezzato in due la barca. Siamo finiti quasi tutti in mare.
 «C’era gente che mi è finitaaddosso. Io sono andata afondo, non so nuotare, e hocreduto di essere morta. Poi, improvvisamente,sono riemersa, il maremi ha riportato a galla. E’ stato a questo punto che mio marito, che era ancora aggrappato a un pezzo di barca, mi ha vista, si è tuffato emi ha acciuffata per i capelli trascinandomi fino alla nave dei soccorritori, che eranovicini a noi e ci lanciavano corde esalvagenti».Asha parla lentamente. Racconta ilsuo dramma con l’ausilio di Fatima,un’immigrata somala che vive a Palermodamolti anni. I medici, le infermieree anche le altre pazienti dellastanza del reparto le stanno tutti accanto,cercano di coccolarla.I suoi genitori, che vivono aMogadiscio,ancora non sanno che è viva.Riesce a sentirli al telefono soltantoadesso, mentre la intervistiamo.«Era mio padre – riferisce al terminedella telefonata – mi ha detto che ierihanno sentito la notizia del naufragioe mi avevano data per morta».Trattiene le emozioni, fa un po’ di faticaa respirare. Le sue condizioni disalute, spiegano i medici, sono «abbastanza buone», tutto sommato. E «sta benissimo anche suo figlio» che tra qualche settimana nascerà . Altro miracolo. Asha ancora non sa se sarà  maschio o femmina. Lo saprà  tra poco,dopo la risposta dell’ecografia che le hanno fatto in mattinata. «Se sarà femmina la chiamerò Luce» – dice accarezzandosiil pancione mentre accennaun sorriso.Torniamo all’inferno. Per chiederlequanti erano esattamente sul barcone:«Di preciso non lo so, io non liho contati, ma eravamo tantissimi, labarca era strapiena, zeppa sopra esotto. Saremmo stati 250-300, forsedi più». Lamaggior parte erano uomini,una quarantina le donne. C’eranoanche tre bambini, due nigeriani euno somalo. «Le altre donne somalecome me sono morte tutte, eravamoin otto e siamo affondate quando labarca si è rotta». Morti annegati anchei tre bambini. Chiediamo ancora:ma è vero che avete viaggiato senzapilota, che siete stati mandati allo sbaraglio dagli scafisti? «No – risponde Asha – il pilota c’era, era lo scafista,anche lui è morto».Il barcone della morte sarebbe partito all’inizio di questa settimana dalla costa libica di Sabratha. Era un barcone multietnico. «Oltre ai somali,che eravamo il gruppo più numeroso, composto da 160 persone», sulla carretta c’erano «etiopi, nigeriani, sudanesi, ivoriani e anche qualche bengalese», ricorda ancora Asha.Domandiamoancora: Siete scappati dalla Libia a causa della guerra? «No – risponde la donna – anche perché io alla guerra ci sono abituata. In Somalia intutta la mia vita non ho conosciuto altro.Solo guerra e miseria. Per questonel 2008 sono andata in Libia, doveho lavorato come domestica in casadi una famiglia araba, e dove ho conosciutoanche mio marito. Dalla Libia abbiamo tentato di partire varie volte,ma ce l’hanno sempre impedito.L’occasione è capitata adesso, forse proprio perché c’è la guerra». Per partire hanno pagato 300 dollaria testa e l’unico bagaglio che avevano era la speranza di arrivare sani esalvi a Lampedusa. Hanno navigato tutto il tempo in condizioni proibitive,con il barcone che annaspava in mezzo al mare grosso. Quando è successo il finimondo erano arrivati ametà  strada, erano molto più vicino alle coste maltesi che a quelle siciliane.«Le onde facevano sobbalzare la barca anche tre metri. Avevamo perso ogni speranza. E’ stato terribile:sulla barca c’era gente che pregava, urlava, piangeva, chiedeva aiuto. Intorno a noi però non c’era nessuno che ci sentiva. C’era solo il mare in tempesta».Intorno alle due di notte hanno cominciato a imbarcare acqua e hanno lanciato un sos con un telefono satellitare, captato dalla guardia costiera maltese. I maltesi però solitamente non fanno soccorsi. Quindi hanno girato l’allarme ad altri, alla guardia costiera di Lampedusa e a un peschereccio di Mazara del Vallo che si trovava nelle vicinanze dal luogo segnalato. I soccorsi arriveranno ma non primadi due ore. Quando le motovedette della capitaneria di porto italiane finalmente avvistano il barcone in panne,si avvicinano, tentano di agganciarlo, ma non ci riescono, il maregrosso glielo impedisce. Lanciano funi, scialuppe, salvagenti. «Siamo salvi», pensano i profughi. Si agitano,cercano di afferrare ciò che possono. Il barcone sta per capovolgersi. E’ inquesti istanti concitatissimi che avviene il patatrac. Per la gran parte dei passeggeri il destino sarà  tragico e beffardo: il barcone infatti crepa proprio mentre i soccorritori cercavano di agganciarlo. Il cedimento strappa Asha dalle mani del marito e viene prima inghiottita e poi risputata dal mare. «Non lo so perché sono viva -dice con un filo di voce – . So soltanto che non volevo morire». Il suo sogno rinato è riprendere il viaggio e «andarein Svezia, dove vive una mia cugina che mi aspetta», confida un attimo prima che arrivi il primario del reparto per comunicarle l’esito dell’ecografia:«E un maschietto», la informail medico. Lei accenna un altro sorrisoe dice: «Lo chiamerò Mustafa».

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