L’ennesima prova di forza
Se, invece, quei reati sono qualificati come reati “comuni” (cioè come fatti del tutto estranei alle sue funzioni pubbliche) il capo del governo dovrà essere giudicato dal tribunale di Milano nella sua normale composizione. Nell’un caso e nell’altro, due organi giudiziari ordinari. La differenza tra i due organi è nel sorteggio Ma chi decide sulla “qualificazione” del reato, cioè se si tratta di reato “ministeriale” o di reato comune? La Costituzione parla sempre e solo di “giurisdizione ordinaria”. E chi ricorda quale è stata la ragione di questa esclusiva attribuzione (nata dopo che un referendum popolare aveva abolito uno speciale organo parlamentare inquirente) non ha dubbi che debba essere la giurisdizione ordinaria a qualificare il fatto per cui si procede. Quindi: o il giudice naturale di Milano, se l’azione penale sia stata esercitata presso di lui. O il tribunale dei ministri di Milano, se invece è questo ad essere chiamato direttamente in causa. Che c’entra allora la Camera dei deputati e il conflitto di attribuzioni che la maggioranza vuole sollevare? C’entra perché quando la giurisdizione ordinaria qualifica il fatto come “ministeriale” – cioè connesso all’attività propria e tipica della carica pubblica e quindi si attiva il tribunale dei ministri – il Parlamento deve essere sempre coinvolto. Sia che il tribunale dei ministri decida di procedere a giudizio; sia che esso decida di archiviare. Qual’è la ragione di questo eventuale “coinvolgimento” del Parlamento nella questione? E’ per consentire alla Camera di fermare il procedimento, di non “autorizzarlo”: se risulta una ragione di Stato. Questo si verifica quando la Camera, a maggioranza assoluta, ritiene che l’inquisito abbia comunque agito per la tutela di un “interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”. Le parole della legge costituzionale n. 1 del 1989 descrivono con una certa esattezza i beni pubblici alla cui salvaguardia sarebbe stata chiamata a collaborare, nella notte milanese, la consigliere regionale Minetti. Nel caso, dunque, che vi sia stata questa qualificazione – diciamo “politica” – del fatto, il Parlamento ha tutto il diritto a rivendicare questa sua attribuzione e intervenire nella procedura. Come ha detto la Corte costituzionale, non gli si può infatti sottrarre “una propria autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati oggetto di indagini giudiziarie”. Quando sia il tribunale dei ministri ad agire, tutto è semplice, tutto è pacifico. C’è la Costituzione, ci sono le leggi che la integrano, c’è la giurisprudenza costituzionale che conferma. Ma il caso – Ruby, Berlusconi e altri – non è così semplice non è così pacifico. Perché? Perché la qualificazione originaria che ha dato ai fatti la giurisdizione ordinaria è quella di “reati comuni” Cioè il giudice naturale di Milano ha escluso che in quella notte siano state esercitate attribuzioni proprie del capo del governo. E ha rinviato ai vignettisti comici di tutto il mondo la trattazione dei pretesi profili diplomatici. Con questa qualificazione originaria – che potrebbe essere cambiata solo dal grado più alto della giurisdizione ordinaria, cioè dalla Cassazione – il tribunale dei ministri è rimasto però tagliato fuori. E se è tagliato fuori il tribunale dei ministri lo è anche il Parlamento. Questo, lo si è appena detto, entra in gioco solo quando si muove il tribunale per i reati ministeriali. Se questo organo giurisdizionale non viene attivato né rivendica la propria competenza, né vi è una contraria decisione della Cassazione, il Parlamento non ha alcuna possibilità giuridica di intervento sul processo. Non esiste infatti, in questa ipotesi, nessuna norma né alcun rilevante precedente giurisprudenziale che permetta alla politica parlamentare di entrare nel processo: dandogli via libera o com’è più probabile, bloccandolo. C’è un buco nel sistema? Le leggi costituzionali e quelle ordinarie che le integrano, prevedono l’obbligo di comunicazione al Parlamento ogni volta che il tribunale dei ministri deve decidere in un senso o nell’altro. Tacciono invece quando, nell’ambito delle proprie competenze, si muove il tribunale “normale”. Il buco dunque c’è: perché in quest’ultimo caso, non esiste nessun appiglio né motivazione a cui il Parlamento possa afferrarsi per dire che è stata menomata la sua attribuzione. Si tratta di un buco logico? Sembra di sì. Vi è una logica in questo tacere delle leggi. La bussola di interpretazione dell’art. 96 della Costituzione è nelle sue parole chiave “il presidente del consiglio e i ministri sono sottoposti alla giurisdizione ordinaria”. E’ dunque a questa giurisdizione che spetta l’originaria qualificazione del reato. E’ dunque essa che deve decidere – nei normali gradi di giudizio – se, nel suo ambito, può procedere il “giudice naturale precostituito per legge” oppure il giudice dei ministri estratto a sorte. Così sembra dire la Costituzione, così la legge costituzionale attuativa, così la legge ordinaria che le integra, così la Corte di Cassazione (anche di pochi giorni fa, nella sentenza del 3 marzo scorso). E allora? A che serve questo fragoroso conflitto di attribuzioni? A sostenere che comunque e sempre, al di là di ogni buco di legge, il Parlamento deve dare la sua autorizzazione prima di procedere contro il capo del governo che gode della sua fiducia? E’ una tesi rispettabile come tutte le tesi giuridiche. Solo che per renderla effettiva si dovrebbe aggiungere alla legge costituzionale qualcosa che non c’è. E prima ancora si dovrebbe dare all’art.96 della Costituzione, che parla di sottoposizione dei membri del governo alla “giurisdizione ordinaria”, una torsione diversa e perfino opposta a quella attuale. Lungo e accidentato percorso. Si potrebbe affrontare solo per sostenere la prevalenza nel caso concreto di uno di quei “principi supremi dell’ordinamento repubblicano” capaci di provocare la illegittimità , anche per omissioni, di leggi costituzionali. Ma è un po’ difficile immaginare che qualcuno di quei “principi supremi” abbia una qualche parentela con il caso Ruby, Berlusconi ed altri. Resta allora solo un’altra temeraria prova di forza contro il “contropotere dei giudici e della Corte Costituzionale”: l’alibi inventato per non governare l’Italia.
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