Le sette vite spezzate che hanno sconfitto la multinazionale

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TORINO – Antonio, ti avevano proprio ammazzato. Roberto, eri morto per niente e non per caso. Angelo, è come se ti avessero accoltellato. Bruno, ti accadde quello che succede quando ti sparano in testa. Rocco, la tua vita non se ne andò per disgrazia, ma per colpa di qualcuno. Rosario, sapevano che potevi lasciarci la pelle e non fecero nulla. Giuseppe, tu che sei stato l’ultimo, e hai resistito dentro una paurosa, infinita agonia di venticinque giorni, anche tu hai detto addio alla vita per esatta, precisa, lucida follia di chi forse poteva, doveva evitarlo ma non lo evitò. Ragazzi, ora lo dice anche un Tribunale: vi hanno assassinato, non siete solo morti di lavoro sbagliato. Le sette facce ci guardano, e sembrano ancora più piccole dentro le fotografie sui giornali come al cimitero, minuscoli visi sconfitti, ma ieri sera vincitori. Perché succede una volta ogni milione di anni che i sommersi possano vendicarsi sui salvati, e riescano a ottenere giustizia. Una volta ogni milione di anni, i morti si prendono la rivincita sui vivi. E non lo fanno solo a nome loro, che già  ce ne sarebbe d’avanzo: lo fanno anche per tutti gli altri morti caduti dai ponteggi, soffocati nei silos, precipitati nelle fornaci, massacrati dal lavoro nero che, curiosamente, cambia il colore alla morte, perché la morte dei lavoratori senza diritto si chiama invece morte bianca. Una volta ogni milione di anni, i piccoli operai scomparsi nella voragine, spazzati via dal fuoco come cenere, cancellati dalla memoria comune che ormai considera solo le cose, e il loro valore materiale, e il loro prezzo sul mercato, e mai il costo umano che è stato necessario per produrle e per metterle in vetrina, una volta ogni milione di anni i piccoli operai scomparsi dall’orizzonte del lavoro e delle loro case, delle loro famiglie, ottengono quello che è semplicemente giusto. Non solo dovuto. Giusto. La chiamavano la fabbrica dei tedeschi, perché la ThyssenKrupp è una multinazionale che mette soggezione a cominciare dal nome, pieno di spigoli come un ordine urlato da un soldato cattivo dentro un film di guerra. Quel suono così sinistro, pure nella lingua bellissima di Goethe e Thomas Mann. In quella fabbrica, i morti viventi si rendono conto del loro destino, sono ciechi perché il fuoco ha bruciato gli occhi però capiscono, chiedono ai compagni accorsi di rassicurare le famiglie, in fondo stanno parlando e ragionando, mica si muore così. Ma come avrebbero mai potuto sette piccoli operai morti, bruciati lentamente come candele, consapevoli della vita che se ne scappava come lo sguardo, come la voce, come la sensibilità  della corpo e delle mani, come le orecchie che più non portano alcun rumore quando stai proprio per andartene, come sarebbero riusciti a sconfiggere i capi tedeschi, e i loro soldi e i loro avvocati, e la loro enorme potenza di fuoco? Chi li avrebbe ascoltati? Chi avrebbe reso giustizia alle loro madri, ai padri, alle mogli, alle fidanzate, ai fratelli e alle sorelle, ai figli? Perché Antonio ne aveva tre, di ragazzini, Roberto due, Angelo due, Rocco due. E Bruno, Rosario, Giuseppe detto Mase erano ancora giovani ma non per desiderare di averne, e di essere padri, e di poter tornare a casa dal lavoro per incontrare gli occhi di un figlio: la massima ricchezza, forse, su questa terra. Il fuoco invece portò via tutto, il passato come il presente, ma soprattutto il futuro, i sogni, i progetti, aprire un bar, diventare camionista, perché i ragazzi della Thyssen volevano scappare, sapevano bene che quella era una bara di acciaio e cemento, non solo una fabbrica. Tre anni e mezzo di processo, e tante volte i presenti hanno chiesto giustizia, talvolta hanno anche gridato. Sembrava una folle richiesta, è stata anche una profezia. Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario Giuseppe. La loro morte, così come la loro breve vita è nella storia di Torino, nella storia del lavoro che a volte uccide, ma anche del lavoro da svolgere con vanto e perizia, meglio che si può, stringendo con orgoglio la chiave a stella. Quattro dei ragazzi della «linea 5» sono sepolti insieme, al cimitero Monumentale, come se ancora fossero in catena dentro la fornace. C’è una riga azzurra che separa i loculi dal resto del cimitero, un confine che dovrà  servire in futuro a rendere sempre riconoscibili gli operai uccisi dal fuoco in una lontana notte di dicembre. Dalla trappola non fecero in tempo a scappare, ma qualcuno ha lavorato per loro, ha ascoltato le storie senza più voce, ha percorso il sentiero della colpa e della responsabilità , infine ha detto che sì, i tedeschi e i loro sottoposti sapevano, e corsero il rischio, e dunque uccisero. Evitarono di spendere ventimila euro per la sicurezza, tanto la fabbrica sarebbe stato presto chiusa, e sperarono in bene. Così poco, dunque, vale la vita di un uomo? Ventimila euro diviso sette? Forse. Ma poi viene il giorno in cui è un altro il conto che torna, che deve tornare. La vita, quella no, la vita non ritorna. Ma la giustizia, se è vera giustizia, lei non era mai andata via. Lei è come il ricordo di chi ti amò.


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