Le riforme immobili
Le due commissioni si sono riunite ieri per discutere i documenti preparati dal governo per il cosiddetto semestre europeo. Le 465 pagine elaborate dall’esecutivo lasciano in effetti poca speranza. L’esame rivela che l’acronimo Pnr dovrebbe essere declinato come “Proprio nessuna riforma”. Del Piano nazionale delle riforme non c’è traccia se non nel senso che si prevedono piani (sul lavoro, la conciliazione tra lavoro e famiglia, etc.), insomma piani che generano altri piani. Doveva delineare un piano d’azione per i prossimi tre anni. Ma la politica economica contemplata da qui a fine legislatura ha come obiettivo strategico il rinvio ai posteri di manovre molto pesanti senza avere nel frattempo varato alcun provvedimento favorevole alla crescita, quindi tale da ridurre l’entità dell’aggiustamento dei conti pubblici necessario dal 2013 in poi. Vediamo i numeri. Il governo in carica nella prossima legislatura dovrà immediatamente varare una manovra da quasi 40 miliardi, come riconosce lo stesso Documento di economia e finanza del governo. È una stima ottimistica perché assume che le misure sin qui varate dal governo abbiano piena efficacia. Tuttavia si tratta in gran parte di misure con effetti aleatori (come la lotta all’evasione), che per lo più spostano spese da un esercizio all’altro (come il blocco del turnover nella pubblica amministrazione), senza alcun miglioramento strutturale nei conti pubblici. Altre misure, come il patto di stabilità interno, devono essere rinegoziate ogni anno, e un governo sempre più debole rischia di trovarsi in grande difficoltà nel confermare i tagli agli enti locali. Se questi interventi non dessero i risultati previsti, dovremmo aggiungere fino a 25 miliardi ai 40 già previsti per il biennio 2013-14, rendendo l’aggiustamento lasciato in eredità ai posteri il più cospicuo della storia repubblicana. Rispetto alla legge di stabilità cambia in negativo la composizione dei tagli alla spesa pubblica. È contemplato, ad esempio, un taglio ulteriore delle spese in conto capitale, che si ridurranno di più di un quarto dal 2009 al 2012, il che significa presumibilmente peggiorare ulteriormente il nostro gap infrastrutturale. L’unica operazione su cui il governo sembra intenzionato a investire il capitale politico residuo è il federalismo. Ma rischia anch’essa di lasciarci un’eredità pesante. Come nota l’audizione di Confindustria, rischia di esportare al Nord i disavanzi sanitari di molte regioni del Sud perché rende ancora più opaco il rapporto fra tasse e servizi offerti ai cittadini sulla base di queste entrate fiscali. Si deresponsabilizzano così i governi locali al cospetto dei cittadini che dovrebbero punirli elettoralmente quando tassano troppo in rapporto ai servizi forniti. Inoltre, il federalismo non ha portato sin qui a ridurre quelle duplicazioni di funzioni che sono alla base di molti sprechi nell’utilizzo di risorse pubbliche. In tutto il mondo i governi sono impegnati in questa fase nel ridisegnare i confini fra intervento pubblico e iniziativa privata. È la crisi del debito pubblico a rendere questa nuova cartografia indispensabile. Bisogna ridefinire priorità , trovare una migliore divisione dei ruoli fra pubblico e privato in un contesto in cui il primo è sottoposto ad una cura dimagrante, potenziando al tempo stesso il ruolo dello stato come regolatore dei mercati per evitare gli eccessi che hanno portato alla crisi finanziaria globale. Può essere anche un modo per trovare assetti migliori, rendere sia il pubblico che il privato più efficienti. È di questo che si discute negli Stati Uniti, come nel Regno Unito, in Francia come nella stessa Germania, che pure ha condizioni macroeconomiche invidiabili. Basta sfogliare i Pnr di altri paesi o, meglio ancora, il dibattito pubblico sui blog, per rendersi conto del fatto che si intende fare politica di bilancio, cambiare la composizione della spesa per renderla più efficace, maggiormente favorevole alla crescita. Proprio da noi, che non abbiamo alternative a tornare a crescere, si discute di tutt’altro. Non c’è un’agenda di quelle riforme che sono note da tempo. Hanno a che vedere con la liberalizzazione di molti mercati di prodotti e servizi, incluse le professioni, la qualità e quantità degli investimenti in ricerca e in istruzione, un mercato del lavoro bloccato e segmentato, che tiene fuori molti, spesso i più istruiti, una specializzazione produttiva sbagliata, che ci espone maggiormente di altri paesi avanzati alla concorrenza dei paesi a più basso costo del lavoro, con una inadeguata dotazione infrastrutturale e, infine, un peso eccessivo della tassazione che finisce per scaricarsi su di una fascia relativamente piccola di popolazione e sui fattori produttivi. I cosiddetti “responsabili” si stanno così prendendo la grande responsabilità di tenere in vita un governo che ha deciso di procrastinare ogni intervento. Come se non incombesse il rischio di contagio, ora che la crisi ha raggiunto la penisola iberica. Come se i problemi strutturali del nostro paese non fossero evidenti a tutti. Negli ultimi 15 anni abbiamo perso, in media, un punto di crescita all’anno rispetto alle altre economie dell’area dell’euro, viviamo un peggioramento degli squilibri con l’estero nonostante la stagnazione, sintomo evidente di una forte perdita di competitività dell’economia italiana. Per una volta i documenti del governo non sono reticenti nel mettere in mostra i problemi della nostra economia. Il contrasto con l’immobilismo del governo è ancora più stridente.
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