Le bombe italiane e l’ombra del passato
Fummo i primi nella storia mondiale, noi italiani, a scaricare esplosivi dal cielo. Accadde un secolo fa, l’ 1 novembre 1911, quando il genovese Giulio Gavotti, alla guida di un Etrich Taube («colomba di Etrich» , dal nome del suo creatore Ignaz «Igo» Etrich) comparve nel sole di Ain Zara, appena a sud di Tripoli. Avrebbe scritto alla madre: «Con una mano tengo il volante, coll’altra (…) estraggo una bomba e la poso sulle ginocchia. (…) Vedo due accampamenti vicino a una casa quadrata bianca uno di circa 200 uomini e, l’altro di circa 50. Poco prima di esservi sopra afferro la bomba colla mano destra; coi denti strappo la chiavetta di sicurezza e butto la bomba fuori dall’ala. Riesco a seguirla coll’occhio per pochi secondi poi scompare. Dopo un momento vedo proprio in mezzo al piccolo attendamento una nuvoletta scura» . Obiettivi militari? Civili? Gabriele d’Annunzio ne La canzone della Diana lo celebrò tonante: «S’ode nel cielo un sibilo di frombe /Passa nel cielo un pallido avvoltoio. /Giulio Gavotti porta le sue bombe» . Ma quelli, almeno, furono ordigni convenzionali. Facevano parte della guerra. Il peggio lo mostrammo due decenni dopo, nella repressione della rivolta contro l’occupazione. Culminata nelle marce forzate dalla Cirenaica verso i campi di prigionia allestiti nel deserto. La relazione ufficiale dei carabinieri sulla deportazione dell’intera tribù degli Auaghir fino al lager di Soluch, 350 chilometri di calvario, ferma il respiro: «Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava, veniva immediatamente passato per le armi» . Vecchi, donne, bambini: furono almeno 40 mila, ha ricostruito lo storico Angelo Del Boca, i libici morti nei campi italiani. Eppure non meno spaventosi furono i bombardamenti. Scrive ad esempio nel libro di memorie Ali sul deserto Vincenzo Biani, entusiasta di falciare pastori al pascolo: «Gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di sé un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l’incubo di un cataclisma (…) e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava. Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionavano benissimo. Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo. E quando finalmente rientrammo a Sirte, il battesimo del fuoco fu festeggiato con parecchie bottiglie di spumante» . Un telegramma di Pietro Badoglio al vicegovernatore della Cirenaica Domenico Siciliani e a Emilio De Bono, ricorda nel libro L’Africa del Duce: i crimini fascisti in Africa Antonella Randazzo, «consigliava di essere spietati: “Si ricordi che per Omar al-Mukhtar occorrono due cose: primo ottimo servizio informazioni, secondo, una buona sorpresa con aviazione e bombe a iprite”» . E il consiglio fu rispettato alla lettera. Una volta, racconta il nostro Biani quasi divertito, «furono adoper a t e alcune bombe ad iprite, abbandonate dal tempo di guerra in un vecchio magazzino ed esse produssero un effetto così sorprendente che i bersagliati si precipitarono a depositare le armi» . Quale fosse l’effetto «sorprendente» di quelle bombe, vietate da tutte le convenzioni internazionali ma apprezzate da quel macellaio del maresciallo Rodolfo Graziani, lo leggiamo in un rapporto dei carabinieri dopo il bombardamento del 31 luglio 1930 dell’oasi di Taizerbo con 24 ordigni da 21 chili caricate a iprite, rapporto recuperato per il libro Genocidio in Libia da Eric Salerno. «Ieri ho interrogato il ribelle Mohammed bu Ali Zueia di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento a gas effettuato a Taizerbo» scriveva l’ufficiale, «Il predetto (..) arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, e seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo coperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare, che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoriuscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le parti del corpo ove le mani infette si posavano» . Che l’uso della iprite fosse comune negli attacchi quotidiani e addirittura nelle operazioni di polizia, esattamente come sarebbe stato poi in Eritrea, è confermato da un rapporto del governatore della Cirenaica Attilio Teruzzi del febbraio 1928: «Sembra che nello Zeefran Heleighima ribelli abbiano abbandonato quaranta tende, di cui venti coniche, in seguito ripetuti bombardamenti gas» . Non c’è dunque da meravigliarsi se Scek Arslan, nel libro Un esponente del Movimento panislamico, descrisse la conquista di Cufra con parole tremende: «La storia dell’umanità , anzi la storia dei barbari, non ha mai registrato fin adesso maggiori atrocità né più vili, né più selvagge di quanto hanno fatto, questa volta, gli italiani in Tripolitania e nella Cirenaica (…) Gli italiani si sono incamminati verso Cufra preceduti dagli aeroplani che incominciarono a lanciare bombe sulle abitazioni uccidendo gran numero di donne, bambini e vecchi…» . Conferma la Randazzo: «Si verificheranno per tre giorni violenze sfrenate e continui saccheggi da parte degli italiani sulla popolazione: fucilazioni indiscriminate, torture anche sui bambini e sui vecchi (ad alcuni vengono estirpati unghie e occhi), indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, donne incinte squartate e feti infilzati, testicoli e teste portati in giro come trofei…» . È questa, purtroppo, la storia che abbiamo alle spalle. Questo è il ricordo, gonfiato poi da decenni di propaganda, che hanno di noi i libici. Sperare oggi che ogni nostra mossa sia dettata dal senso della misura, tanto più dopo il rovesciamento di un rapporto che aveva visto il Cavaliere baciar l’anello di Gheddafi, è il minimo: prudenza, prudenza, prudenza.
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