Le bandiere della dignità 

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Nella fase finale del berlusconismo, non tutto si spiega con la necessità  stringente di sopravvivere ai processi, con l’interesse del capo e gli affari dei servi. Nel vecchio Berlusconi c’è come una libidine dello svacco, una scommessa, una provocazione. Vedere quanto il Paese, per lui, è disposto a degradarsi agli occhi del mondo. Oggi, a proposito, arrivano le telecamere e gli inviati dal mondo intero per raccontare il processo Ruby, la grottesca sfilata delle olgettine e degli olgettini. Ma ieri lo spettacolo del palazzo era perfino peggiore, da regime vero. Per esser chiari, un regime non è quando si censurano i telegiornali o si fa ministro un’amante o si fanno approvare venti leggi ad personam o ci si circonda di delinquenti e mafiosi o si attenta un giorno sì e l’altro pure alla Costituzione. Questa è soltanto una democrazia (molto) corrotta. Regime è quando riesci a comprarti quelli che fino all’altro giorno ti denunciavano in piazza per le «mignotte ministro», l’attentato alla democrazia, la collusione con le mafie. Perché ogni potere assoluto deve passare anzitutto dalla scomparsa della dignità . 
Alla perdita generale della dignità  l’ultimo Berlusconi lavora con lena instancabile, si direbbe con entusiasmo, ogni giorno, con qualsiasi mezzo. Si tratti di una legge per sé o d’una barzelletta su fica e culo, della riabilitazione implicita del fascismo o dell’esaltazione dei ladri di Tangentopoli, della spudorata compravendita di parlamentari o di festini con minorenni. È un programma che l’assorbe, lo eccita come un bunga bunga. I problemi veri, le guerre civili alle porte, Lampedusa e L’Aquila possono attendere. Nella furia di abbassare di continuo il prossimo, non risparmia umiliazioni neppure agli alleati fedeli. In fondo, non ha mai dimenticato gli anni in cui la Lega lo definiva il mafioso di Arcore, il riciclatore di soldi sporchi dell’eroina. Quindi pretende proprio da Bossi e dai leghisti il maggior tributo servile, la più isterica delle difese dei propri interessi. Naturalmente, l’ottiene. Poi ci sono i sedicenti responsabili, fenomeno estremo dell’antropologia politica italiana, ma si sconfina appunto nel non raccontabile. 
Un gran pezzo dell’Italia, per dirla con Edmondo Berselli, gli va dietro con gioia, da sempre tifosa dello svacco. Ma lo scopo di tanto agitarsi non è ormai il consenso, la mobilitazione dei berluscones pronti a intonare «meno male che Silvio c’è». L’obiettivo vero è il non dissenso, la smobilitazione rassegnata degli altri. Per questa ragione, ogni volta che la protesta scende in piazza sotto la bandiera della dignità  e non delle politiche, la reazione della corte è furibonda, uterina, fanatica, immensamente volgare. Come l’espressione di Ignazio La Russa o un titolo di Libero e il Giornale messi insieme. Così è stato dopo il Palasharp, la manifestazione delle donne, quelle di ieri in giro per la Capitale. Agli occhi del servo, la ribellione è un atto di libertà  insopportabile. E comunque ricorda che le cose possono cambiare in fretta. I sindaci rideranno pure alle barzellette sguaiate, ma intanto il premier non può presentarsi a una piazza e deve girare al largo da L’Aquila. Il re è nudo. E pure esibizionista.


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