L’anima rom del Salento
LECCE. Le piogge di marzo hanno reso il terreno del campo rom, a due chilometri fuori dell’anello della tangenziale, un acquitrino-trappola per l’auto. Arriviamo in contrada Panareo, periferia nord di Lecce, ed è meglio parcheggiare sul pietrisco dopo essere entrati nel campo. Non s’incontra un’anima nella tarda mattinata di un sabato. C’infanghiamo per niente? Immaginiamo di stare fra le baracche: pannelli di plastica squarciati, lamiere bucate su assi di legno marci, teloni fradici afflosciati nella melma. Quegli affastellamenti, per scommessa ancora alzati, si rivelano abitati appena sbuca un bambino che vedendoci emette un gridolino di richiamo: tre, quattro, sei, un gruppetto di piccoli si materializza rapido e ci attornia. La vecchia fotocamera a tracolla fa da potente calamita e chiedono insistentemente di essere fotografati. Incombe un’ordinanza di sgombero emessa dai dirigenti del settore urbanistica del comune di Lecce: quei mucchi confusi di materiali, improbabili ricoveri per una ventina di famiglie, vanno demoliti.
L’incendio nel campo rom sull’Appia Nuova a Roma, costato la vita a quattro bambini, è un monito d’allarme per le autorità municipali nel cui territorio vi sono migranti stanziali. Ora si cerca di prevenire, alle porte del capoluogo salentino, dopo il sopralluogo di vigili del fuoco e di ispettori Asl. Lo sgombero del campo Panareo, con le ruspe già pronte, era stato fissato in un giorno di fine febbraio. Ma l’intervento è slittato. Dove li avrebbero spostati i rom, per una sistemazione abitativa alternativa? Nessuna informazione. Meglio quei rottami allora, al niente. E loro hanno minacciato di restarsene là sotto a oltranza per impedirne l’abbattimento. Sostenuti da associazioni antirazziste, poi, hanno presentato ricorso al Tar che ha bloccato l’ordinanza di demolizione del comune.
L’emergenza non aspetta e bussa forte alle porte delle istituzioni che si sono rimpallate il peso della gestione del caso rom. Lecce e i comuni limitrofi rientranti nell’ambito sociale di zona sono stati manchevoli nel reperire risorse finanziarie per l’acquisto di roulotte, figurarsi per altre forme di accoglienza che prevedano un tetto stabile a una comunità trapiantata in Salento da circa vent’anni. Oltre alle risorse, a dirla tutta, è mancata la volontà politica per un’inclusione di persone bisognose provenienti dall’altra sponda dell’Adriatico. Le quali, dopo peregrinazioni nel territorio del leccese, si trovano relegate dal 1998 a Panareo. Aperto come campo sosta per soggiorno temporaneo, in vista di un’accoglienza dignitosa o meglio di un’integrazione effettiva nel tessuto sociale urbano, si è trasformato in un campo di residenza a tempo indeterminato. Vero ghetto separato dalla città , delimitato da cancellata e muri: un’entità umana da tenere a debita distanza, chiusa. Ma che adesso preme verso la città . Vogliono entrarci da cittadini, i rom, abitarla, godere delle pari opportunità di socialità e soprattutto di lavoro. I sindaci intanto si rivolgono all’ente regione, cui si vuole appioppare il fardello-rom, chiedendo fondi (700-800 mila euro) per soluzioni tampone e l’intervento dell’assessorato alle politiche sociali che fronteggi il problema.
Il problema contingente, nel campo che visitiamo, è rappresentato da quei bambini che si avvinghiano alla tracolla della fotocamera implorando di venire ancora fotografati. Il gioco che va avanti col tira e molla lo fa smettere la provvidenziale intrusione di una nonna. Si presenta così una donna, benché giovane, che lasciati i panni nel lavatoio, fra le pozzanghere, c’invita nel suo alloggio. Il campo Panareo contiene una folta comunità , priva del diritto di cittadinanza, di etnia montenegrina e kosovara. I migranti non sono nomadi per cultura, né per scelta. Lo spostamento è stato forzato, dettato da una situazione conflittuale che ha devastato la ex Jugoslavia per l’intero decennio novanta. I più, che hanno lasciato Podgorica (ex Titograd) capitale del Montenegro, si sono trovati in Salento sulla base dei flussi migratori. Alcuni hanno lo status di rifugiati politici. Anche fra i rom esistono distinzioni e trattamenti differenti. C’è chi vive in prefabbricati o addirittura all’interno di case in muratura, sebbene miniaturizzate, e c’è chi sopravvive sotto un riparo precario che definire baracca è un eufemismo.
L’invito rivoltoci è ad entrare in una casetta in muratura, per fortuna. Ma il tanfo è così acre, appena si varca la soglia, che spinge a sporgere la testa fuori della porta per una boccata di aria. Alla donna, che continua a farsi chiamare nonna, preme indicarci le macchie d’umido estese sulle pareti, le chiazze di muffa che giganteggiano sulla mobilia, la ristrettezza delle stanze e la copertura del solaio a poco più di due metri dal pavimento. Probabilmente ci ha scambiato per qualcun altro; non ha ben chiaro chi siamo e comincia un tormentone: «Perché tu non dai casa nuova a me. Dare casa asciutta. Ho marito e due figli sposati, dà i a me casa più grande». Dall’impaccio ci toglie un giovanotto sui venti-ventidue anni, alto uno e novanta. Sta dentro un po’ curvo e si presenta come primogenito della padrona di casa. È sposato con la ragazza esile e biondina, rimasta a lavare i panni con la suocera, ma che ora è venuta sull’uscio. Gli domandiamo il nome e che lavoro fa. Si chiama Maurizio, ma ci pentiamo subito per la seconda domanda. Si ripiomba nel tormentone: «Tu vuoi fare lavorare me? Perché non mi trovi un lavoro tu. Io ho bisogno, sposato da sette mesi, dai un lavoro per mia famiglia». Si esce dall’impasse perché riprende a piovere. C’è il rischio che l’auto resti impantanata e si deve fare in fretta a spostarla, gli diciamo. Non si sa mai… se sopraggiunge pure il marito della donna, nonché padre di Maurizio, magari ci supplica per un sussidio d’invalidità , o per una richiesta qualsiasi che non saremmo in grado di soddisfare. Alla fine paghiamo pegno, volentieri, a dei ragazzi sui dieci anni che hanno «guardato» la macchina e chiedono qualche spicciolo.
Il tasso di minori nel campo è altissimo: circa cento, su una popolazione complessiva di 225 unità che vive pacificamente. Gli uomini sono dediti in prevalenza ad attività di compravendita di piante ornamentali e da giardino. La microcriminalità , pur non del tutto assente, è irrilevante nel contesto dei reati consumati in città e non crea allarme sociale. I bambini in età prescolare frequentano l’asilo, gli altri sono iscritti alle elementari e alle medie. Eppure nel campo, in orario di scuola, si aggiravano pochi adulti e parecchi minori. Quasi tutti nati e cresciuti in Puglia, padroneggiano la lingua italiana meglio dei loro genitori. «La scongiuro signore, lei che può, ci regali una moneta più grossa», diceva un tipetto dall’espressione strafottente a nome di quei tre-quattro che «guardavano» la macchina.
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