La scienza e il cigno nero

by Editore | 13 Aprile 2011 5:53

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Probabilmente, oltre che rassegnarci al fatto che i frutti dell’albero che scuotiamo cadono fuori dal cesto, dobbiamo rimettere in causa gli stessi scopi che abbiamo dato per scontati lungo qualche migliaio d’anni. Abbiamo bisogno di una conversione ecologica, che è altra cosa da una riconversione produttiva: come il passaggio da una vita da cacciatori a una da tessitrici. Torniamo a Fukushima e al suo antefatto, Hiroshima. L’anno scorso morì, a 93 anni, l’ingegnere Tsutomu Yamaguchi. Tutto il mondo ne parlò, aveva fatto un memorabile discorso alle Nazioni Unite, ed era l’unica persona ufficialmente riconosciuta come superstite a due bombe atomiche. Yamaguchi era in trasferta a Hiroshima il 6 agosto 1945, fu ferito e ustionato, rientrò a Nagasaki in tempo per la seconda bomba, il 9 agosto. Ebbe l’impressione che il fungo atomico l’avesse inseguito. Le vittime giapponesi sopravvissute a quel primo esperimento atomico (i morti furono 240 mila subito, altri 270 mila per gli effetti delle radiazioni) si vergognarono a parlarne, o non vollero, più ancora di quanto sia successo ai superstiti di Auschwitz. Yamaguchi ne tacque fino al 2005, quando il suo secondo figlio, anche lui sopravvissuto a Nagasaki, morì di cancro. Il Giappone, solo destinatario, finora, di un bombardamento atomico, prese su sé la missione di porre riparo a quella catastrofe trasformando l’energia nucleare in una risorsa pacifica. È questo a rendere così definitiva la tragedia di Fukushima. La correzione di un errore immane tradotta in una replica dell’errore. Eterogenesi dei fini la più impressionante. Il fine da rimettere in causa è la fiducia senza riserve nel progetto di domare e dominare la natura, la passione per una scienza impaziente di ogni limite che non sia meramente tecnico e provvisorio. E l’abitudine cui rinunciare è la mortificazione provata di fronte alla necessità  di tornare indietro, di disfare il già  fatto. Di fronte al Regresso. Così per il nucleare, ma non solo per il nucleare. Certo, il nucleare è davvero “un’altra cosa”. Gli ultimi anni si vanno riempiendo di cigni neri e di emergenze, l’11 settembre e il crollo finanziario, lo tsunami giapponese e le rivolte arabe: non abbastanza da persuadere coloro che non sono disposti a cambiare strada, e anzi invitano a imboccare più risolutamente la strada di prima, che sia la divinità  del mercato o la perennità  dell’homo automobilista. I reattori di Fukushima si erano appena crepati che un coro esaltato proclamava l’impegno ad “andare avanti” sulla strada del nucleare. (“Avanti!”, antica e nobile parola d’ordine dell’epoca del Progresso). Tra i ripensamenti, mi ha colpito la lettera di Umberto Veronesi qui, dove distingue fra l'”errore umano” di Cernobyl e Three Mile Island, e l'”incidente di strategia” di Fukushima. (Anche per Fukushima si farà  presto -(si è già  fatto)- a invocare l’errore umano). Veronesi sembra confidare che gli errori umani siano correggibili fino a offrire la “sicurezza”. Ma l’errore non è soltanto un difetto rivedibile dell’umanità , è l’umanità  stessa. Si può spingersi a dire che niente è più umano che l’errore: cioè l’agire secondo un’intenzione riflessa, e il suo scacco. Col nucleare, questa probabilità  risulta in effetti catastrofici. Al mondo sono in funzione 453 centrali nucleari, e una è bastata allo scempio di Fukushima. “Ma lo tsunami è stato eccezionale”: già . Un errore della natura? La natura li fa, chiedete all’islandese: solo che non li premedita, né li usa per castigarci, muove la coda distrattamente. Propongo a Veronesi, che crede a quel che dice (addirittura alla ineluttabilità  del nucleare, pena la fine del genere umano) di immaginare che l’errore umano sia nella decisione stessa di piegare e impiegare l’energia nucleare. Non è questione di abdicare alla scienza, al contrario: di chiederle di trovare altre strade alla convivenza umana. Il nucleare è “altra cosa”: ma insieme è, per eccesso, rivelatore di una relazione distruttiva con la terra in cui e di cui viviamo: anche ordinariamente e “pacificamente” distruttiva. Che sia così, sono in moltissimi ormai a intenderlo: ma anche a provare una sensazione di impotenza e di resa, perché ci siamo spinti assai oltre in un modo di produrre e consumare e vivere, e per la giusta diffidenza verso vecchi miti di palingenesi, e nuovi miti di “decrescita”. Così, spaventati di ammettere l’emergenza universale, rincorriamo le innumerevoli emergenze particolari, come quel giocoliere del Circo di Pechino che fa girare una lunga fila di piatti sui bastoncini e corre di qua e di là  a dare un altro colpettino al piatto che ciondola e sta per cadere. C’è bisogno di cambiare, nelle persone e nelle cose. C’è un verbo riflessivo e uno transitivo: convertirsi e riconvertire. Si può scegliere di farlo, o si può essere costretti: è come scegliere di rinforzare l’argine, o aspettare che la piena l’abbia travolto. Come a Lampedusa. Ci sono persone pazienti e competenti che affrontano l’agenda dettata da premesse come queste, senza sottovalutare la portata dell’impresa, ma senza lasciarsene intimidire fino alla rassegnazione e, appunto, all’abitudine. Lo fece Alexander Langer, lo fa, con tanti altri, Guido Viale. I lettori di Repubblica ne conoscono gli interventi puntuali (e anche profetici) su alcune delle abitudini “irrinunciabili” e “irreversibili” che sembrano diventate una seconda – o terza e quarta – natura, in questa parte di mondo, e si sbrigano a diventarlo anche nelle altre: l’automobile privata, il pieno di monnezza, il trionfo della confezione e del consumo usa e getta. Si intitola appunto, un nuovo saggio appena uscito di Viale, “La conversione ecologica” (NdA, Rimini). Spiega che non si dà  una cultura adeguata allo stato del pianeta se non nel riconoscimento di chi è venuto prima e nella disposizione a cambiare rotta e animo, combinando lungimiranza e prossimità , capacità  di pensare in grande e di agire in piccolo, responsabilità  e iniziativa “dal basso” e, dovunque sia possibile, impegno di reti e istituzioni. Chi lo legga, e non sia avvezzo a questo dibattito, si ritroverà  dapprima diviso fra una sensazione di enormità  e una di inevitabilità : “non c’è alternativa”, infatti. Poi, cominciano i problemi concreti. A partire da quegli effetti della globalizzazione qui spesso e variamente trattati, cui si possono immaginare due tipi di risposte. Uno (Scalfari lo chiama dei “vasi comunicanti”) prova a immaginare in quale punto possano incontrarsi le opposte tendenze, quella rapida del lavoro nei paesi “sviluppati” a degradarsi e venir meno, e quella lenta nei paesi “emergenti” a conquistarsi remunerazioni e diritti decenti. Un incontro per il quale si dovrebbe pensare all’idea “come nuova” di un’associazione Internazionale dei lavoratori – e dei cittadini. Un’altra risposta punta soprattutto alla “riterritorializzazione” di produzioni e consumi, a cominciare dall’autonomia alimentare ed energetica e dalle relazioni di prossimità , “a km zero”: un modo di vita in cui le cose viaggino il meno possibile, e siano le idee, i saperi, e le persone stesse, a fare il giro di un mondo sempre più condiviso. È possibile che i due approcci, piuttosto che contrari, si mostrino complementari. Per riportare lavoro e consumo al loro luogo bisogna attenuare la convenienza parassitaria della delocalizzazione e dei viaggi intercontinentali delle merci. Quanto al bene comune, che di un movimento vasto e mondiale è diventato la parola d’ordine più o meno ideologica, ebbe un tempestivo manifesto nell’acquaforte di Goya dai “Disastri della guerra”, con l’ecclesiastico vampiro che legifera “contro il bene comune”. Così distante da un altro frate, che chiamava l’acqua sorella, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta, et non l’avrebbe mai privatizzata.

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