La ricetta anti-crisi del latte statale
Voi pensate: (1) è un Paese molto fortunato perché non ha problemi più seri a cui pensare; (2) hanno scoperto come trasformare il latte in arma di distruzione di massa; (3) è un Paese che assomiglia a un circo, governato da pagliacci che credono di essere domatori. Il problema di Parmalat non sono i francesi, ma la cattiva gestione industriale. Già due anni fa, in questa rubrica (31/1/2009) paragonavo Parmalat a un panda: esemplare bello e raro del nostro capitalismo; ma a rischio di estinzione perché concentrato nel latte, a bassa redditività , con margini pari a un terzo di quelli dei leader di settore, povero di marchi, sottodimensionato, ma incapace di crescere nonostante la tanta liquidità a disposizione. L’acquisizione di marchi e aziende in Paesi in forte crescita era la strada obbligata; meglio accoppiandosi con un altro panda italiano: «Un gruppo con cui fondersi […] viene in mente Ferrero». Lo proponevo per scongiurare il rischio di estinzione, un domani, anche per quest’ultima. Sottodimensionata rispetto alla concorrenza, e non quotata, Ferrero difficilmente riesce a mobilitare le risorse necessarie per grandi acquisizioni; come il fallito tentativo con Cadbury avrebbe dovuto insegnarle. E invece, in questi anni nessuna delle due ha fatto niente. Difficile lo facciano ora. È la storia di tanti nostri marchi: Simmenthal, Galbani, Star, Perugina, San Pellegrino, Caffè Hag, Invernizzi, Algida; nella moda, Valentino, Ferrè, Fendi, Gucci, ora Bulgari. Una cattiva gestione; o un imprenditore che non ha capito quanto sia aumentata con la globalizzazione la dimensione del suo mercato rilevante e, incapace di crescere oltre i confini, preferisce passare all’incasso. Se non ci sono italiani disposti a comperare, ovvio che lo facciano gli stranieri. Il problema è nelle aziende, non nell’imperialismo straniero. Lo confermano le tante società italiane di successo che crescono facendo acquisizioni all’estero: Luxottica, Lottomatica, Prysmian, Enel, Mediaset, Autogrill, Campari, Buzzi; pure in Francia, come Atlantia e Italcementi. E non è forse anche il caso di Fiat (ma che, per questo, è criticata)? La dimensione di molte imprese italiane va bene per l’orto di casa nostra. Anche perché le banche italiane non sono grado di sostenere e finanziare la loro crescita all’estero. Ciò nonostante, le si vorrebbe ancora più locali e “radicate sul territorio”. Se mancano capacità manageriali e mezzi finanziari, dirigismo e statalismo sono inutili e dannosi. Ma il governo non se ne cura; vuole apparire forte. Invece di contrastare il protezionismo francese nelle opportune sedi europee, lo scimmiotta: i francesi almeno proteggono i campioni nazionali che hanno; noi quelli che sogniamo di avere. Così, con una raffica di decreti improvvisati, il governo prima vieta la distribuzione dei dividendi, danneggiando la Borsa (da oggi i diritti degli azionisti possono essere limitati d’imperio). Poi ostacola le scalate, rinviando le assemblee, quando la soluzione era l’esatto contrario: costringere Lactalis a lanciare l’Opa, chiarendo che conta il controllo di fatto. L’Opa totalitaria sarebbe stata una barriera ben più efficace. Promuove la costruzione del “nucleo italiano” con le banche di “sistema”, che non risolve niente, come dimostrano i casi Telecom, salvata dallo straniero, che da anni langue in un lento declino; o A2a spinta a indebitarsi fino al collo solo per piantare la bandierina in Edison, e non contare nulla. Parmalat-Granarolo rischierebbe di essere il patetico sequel di Alitalia-AirOne (stesso regista, IntesaSanpaolo). Ciliegina sulla torta, la Cassa DDPP, trasformata in novella Iri, per avere il latte di Stato. Idea brillante per un Paese col debito pubblico al 120% del Pil. Ma perché tutto questo per Parmalat, e non per Bulgari, un simbolo dell’Italia nel mondo di ben altro peso? La ragione, temo, è che Bulgari non compera il latte dagli allevatori padani, roccaforte del voto leghista, a un prezzo tra i più alti d’Europa. Le partecipazioni statali a scopi clientelari sono tornate. O forse non ce le siamo mai lasciate alle spalle.
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