La nave cisterna “Equator” a Marsa el-Hariga per la prima vendita di greggio da parte degli insorti

Loading

Se la petroliera Equator, battente bandiera liberiana ma di proprietà  greca, che da ieri i ribelli libici riempiono concitatamente di petrolio al terminale di Marsa el-Hariga vicino Tobruk, riuscirà  a partire a pieno carico, il greggio che venderà  (pare al Qatar) avrà  un valore di oltre 122 milioni di dollari. Abbastanza per comprare, secondo calcoli dell’intelligence britannica, 250mila kalashnikov Ak-47 (prezzo sul mercato nero 500 dollari l’uno), oppure mille lanciarazzi a 125.000 dollari oppure ancora 250 camionette corazzate M-Rap che costano 500mila dollari l’una. Questo milione di barili di greggio (il Brent è salito appunto a 122,7 dollari ieri), rappresenta la prima esportazione di petrolio libico da tre settimane, la prima in assoluto realizzata dai ribelli. Che gli insorti dispongano di un milione di barili, però, rimane da dimostrare (anche se gli interessati sostengono di averne 2-3 milioni): dai primi giorni di marzo la loro neocostituita Arabian Oil Company estrae, pare, 100mila barili al giorno nei giacimenti che controllano nel nord-est del paese, ma le loro capacità  di stoccaggio nelle condizioni attuali sono quantomeno incerte, come dimostrano i furiosi attacchi di Gheddafi sui terminali petroliferi di Brega e Ras Lanuf, non a caso particolarmente accaniti ieri. Eppure il significato simbolico resta. Ma resta anche la convinzione, pressoché unanime fra gli esperti internazionali, che servirà  moltissimo tempo, anche dopo la fine delle ostilità , perché la Libia riprenda le sue normali esportazioni, che erano di 1,6 milioni di barili al giorno, su 30 milioni di provenienza Opec. «Per rimettere in funzione le attrezzature, riparare i danni di guerra, riallacciare i rapporti commerciali, un anno potrebbe non bastare», sentenzia Ed Yardeni, analista di New York. Non sorprende che l’Eni, il principale operatore occidentale in Libia, stia cercando già  da diversi giorni di riposizionarsi in qualche modo. Paolo Scaroni ha incontrato a fine marzo a New York i rappresentanti dei ribelli per cercare di riavviare l’estrazione di petrolio (bloccata dal 23 febbraio), a partire dai pozzi di Bu Attifel, in zona controllata da Bengasi lungo il principale oleodotto che dal sud del paese porta a Tobruk. L’Eni gestisce il giacimento dal lontano 1972 attraverso la Mellitah Oil & Gas, una joint-venture con la compagnia di stato libica, la National Oil Corporation, la cui identità  e proprietà  è però oggi indistinta. I contatti di Scaroni proseguono telefonicamente, però è ancora presto – aggiungono all’Eni – per dire quando i tecnici italiani (che sono oggi tutti rimpatriati come quelli delle altre compagnie straniere) potranno rimettere piede sul suolo libico, e senza il loro know-how non è semplice riprendere una produzione decente. Nel frattempo il prezzo del greggio continua ad impennarsi. A soffrirne di meno sono gli Stati Uniti, che contano su propri serbatoi pieni zeppi e, dimenticato l’incidente della Bp, su una produzione più consistente che mai sia in patria che in Messico. Non a caso il West Texas Intermediate quotato a New York valeva ieri 107 dollari, sempre più lontano dal Brent. Il che suggerisce forse qualche considerazione sulla natura “petrolifera” dell’operazione militare americana. Per l’Europa, la più esposta insieme con l’Asia, la speranza sono le compensazioni che faticosamente l’Opec (in particolare Arabia Saudita, Kuwait e Uae) portano avanti per reintegrare la quota libica. Misura che non sempre riesce (pare che manchino all’appello 6-700mila barili), e quindi il prezzo sale alle stelle. Il guaio è che questa è di gran lunga la più estesa fra tutte le crisi mediorentali della storia, e interesse teoricamente l’intera area. Non a caso, il vecchio e saggio sceicco Zaki Yamani, l’uomo che inventò l’embargo petrolifero nel 1973 e oggi dirige un prestigioso think-tank a Londra, ha espresso ieri un’inquietante profezia: «Se la crisi si allargherà  all’Arabia Saudita, il greggio salirà  a 2-300 dollari». A chi gli obiettava l’apparente solidità  della monarchia wahabita, che per ingraziarsi la popolazione ha destinato in tutta fretta 93 miliardi di dollari all’edilizia popolare, alla scuola, alla sanità  pubblica, ha risposto: «Perché, che succedesse in Tunisia ve lo aspettavate?».


Related Articles

Attentato a Londra. La retata nel covo dei «pachistani»

Loading

«Quando è troppo è troppo» May sfida l’Islam radicale (e il multiculturalismo inglese)

Truppe ai confini l’Ue diffida Putin “No all’invasione”

Loading

Accordo Mosca-Kiev per un convoglio di aiuti “Ma la Russia ha schierato 45 mila soldati”

Il lungo tradimento americano (ed europeo, e italiano) dei curdi

Loading

Dagli anni 70 al Rojava. L’Italia ora fa la voce grossa ma quando nel 2016 venne in Italia il capo del partito filo-curdo Hdp, oggi in carcere, non fu ricevuto da nessuno del governo Gentiloni

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment