La costituzione virtuale
Avevamo inteso che Berlusconi avesse l’ancien régime nel sangue, ma non ci eravamo accorti che fossero già legittime le lettere grazie a cui alcune teste possono liberarsi delle giurisdizioni usuali per ricorrere a una corte sovrana (si chiamavano «Committimus») o che fossero già conformi alla legge le lettres de cachet, gli ordini reali che recludono o liberano in via diretta. Ascoltiamo le parole di un dignitario del Sultano. Denis Verdini è il coordinatore del partito delle libertà : «I magistrati devono fermarsi ora, rispettare il Parlamento e aspettare il verdetto della Consulta. (Nel “processo Ruby”) non possono assumersi la responsabilità di andare avanti comunque. Se lo facessero sarebbe un atto di sfida politica alla Camere». Nel mondo, ordinato da una Costituzione che non c’è, nella “iustitia secundum Berlusconem”, è il Parlamento che decide della giurisdizione, non più i giudici. Le platee bevono. Sono litanie che scavano nelle teste più docili e purtroppo anche nelle meno accomodanti. In queste fantasie deformi si scopre che la procura di Milano è abitata da avventurosi picchiatelli (o consapevoli farabutti) perché – si legge e si ascolta in televisione – i pubblici ministeri non distruggono le intercettazioni di Silvio Berlusconi, come dovrebbero. Perché conservano le memorie acustiche; peggio, in qualche caso trascrivono addirittura le parole dell’Augusto. Si conclude (e ci sia un’anima buona che controargomenti da qualche parte): quei pubblici ministeri ignorano che le parole del presidente del Consiglio, come di ogni altro parlamentare, non possono essere utilizzate e vanno considerate come mai dette, mai raccolte, mai ascoltate, mai esistite e quindi distrutte. È davvero così? Davvero quando incappano nella voce di un parlamentare – e ancora di più nel presidente del Consiglio – i pubblici ministeri devono diventare sordi? È questo l’obbligo che la legge prescrive ai procuratori? Accade che si scateni un putiferio perché l’Espresso e il Corriere della sera pubblicano alcune intercettazioni di Berlusconi. I più servili parlano di «reato»: sono pagati dal Sultano, è il loro mestiere chiedere l’arresto di chi infastidisce il Padrone con un’indagine penale. Non sorprende che al coro si unisca qualche anima fioca sempre in cerca di alibi per non prendere posizione. Stupisce che qualche addetto di lungo corso, che pure la legge conosce, soffi contro la procura di Milano parole come “errore”, “negligenza” insinuando – lieve – anche la colpa senza dolo o magari il dolo tout court, l’intenzione di sputtanare in pubblico il premier. Troppo tardi il procuratore di Milano decide di fare chiarezza. L’affare, nel suo racconto, è più semplice di come si può immaginare. Si indaga su una congrega che favorisce la prostituzione di giovanissime donne. Si ascoltano le parole di tre indagati e delle falene che organizzano. Con gli uni e con le altre, nell’agosto 2010, chiacchiera Silvio Berlusconi (non è ancora indagato). Le sue conversazioni – un paio – sono allegate a una richiesta di proroga delle intercettazioni (autorizzate di 15 giorni in 15 giorni). Quando le indagini si concludono, la trascrizione di quei colloqui è consegnata, come tutti i documenti dell’inchiesta, agli avvocati del Sultano affinché possano verificare il rispetto anche formale delle procedure d’intercettazione. Potevano farlo? Dovevano farlo? Chi crede nella Nuova Costituzione Virtuale, che ha già reso immune tutti i parlamentari, pensa che non potevano farlo. Lo ripetono i caudatari alla Camera pretendendo penitenze esemplari. Per capire come stanno le cose, è necessario leggere quel che ha scritto il «giudice delle leggi», la Consulta che garantisce la Costituzione, quella vera e ancora in corso. Nella sentenza n. 390 del 2007, che dichiara l’illegittimità costituzionale dei commi 2, 5 e 6 dell’art. 6 della legge Boato (regola la materia), la Consulta stabilisce che non è necessario richiedere il placet della Camera per poter far uso dei dialoghi intercettati cui abbia preso parte un parlamentare (nel nostro caso, Berlusconi), qualora l’autorità giudiziaria voglia utilizzare le intercettazioni (processualmente rilevanti) contro un indagato non parlamentare (per noi, Minetti, Fede, Mora). La Corte aggiunge: se pubblici ministeri o giudici ritengono necessario utilizzare quelle memorie foniche contro un parlamentare è necessario chiedere il nulla osta preventivo alla Camera di appartenenza. La procura di Milano non ha chiesto l’autorizzazione della Camera perché nessuna intercettazione di Berlusconi è stata utilizzata come fonte di prova nel processo che lo ha imputato. E comunque – dispone la Consulta – anche quando l’autorizzazione non è concessa, il contenuto delle intercettazioni non deve essere distrutto, ma conservato perché le intercettazioni sono utilizzabili «limitatamente ai terzi non parlamentari». Chiaro, no? Le parole intercettate di un parlamentare possono essere utilizzate senza autorizzazione contro chi parlamentare non è. Soltanto con il consenso della Camera, se l’imputato è un parlamentare. E allora, perché la procura di Milano avrebbe dovuto distruggere le intercettazioni di Berlusconi? Perché non dovrebbe utilizzarle «contro terzi» che non siano Berlusconi? Non si sa, a meno di non volere bere la storia che siano in vigore i codici virtuali e la Costituzione Virtuale approntata nella cucina verbale del Sultano.
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