La corsa in salita del social president

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Non solo, ma Obama è andato proprio nel quartiere generale di Facebook a Palo Alto e si è fatto intervistare dal 26-enne fondatore (e proprietario, ancorché contestato) di Facebook, Mark Zuckerberg, che non solo è il miliardario (in dollari) più giovane della storia, ma è anche il protagonista del film The Social Network. Dopo aver annunciato ufficialmente il 3 aprile la sua candidatura a un secondo mandato, Obama ha dato mercoledì il vero inizio alla sua campagna. La visita a Palo Alto è solo una delle tappe della tournée del presidente candidato presidente negli stati occidentali, insieme a Reno (Nevada), San Francisco e Los Angeles. Ma è quella che meglio esprime la volontà  da parte di Obama di riannodare il filo – dolorosamente reciso – con la campagna presidenziale del 2008: di nuovo, nel 2011 Obama vuole presentarsi come il politico in sintonia con i giovani, non solo con i loro mezzi di comunicazione, non solo con le loro reti sociali, macon la loro cultura e le loro aspirazioni, proprio come nel 2008 era il primo candidato presidente che discuteva di quali canzoni fossero immagazzinate nel suo iPod. Obama cerca cioè di riconquistare quello che nel 2008 era considerato il suo «zoccolo duro»: i giovani, i dipendenti pubblici, le minoranze, le donne (più le single che le madri di famiglia), tutta quella «coalizione sociale obamiana » di cui aveva progressivamente perso un pezzo dopo l’altro. E i pezzi li ha persi nel tentativo – mai riuscito – di neutralizzare l’ostilità  dei repubblicani, di essere bipartisan addirittura con se stesso. L’ultimo tentativo è stata la suamediazione sulla finanziaria (qui si chiama legge di bilancio) in cui, messo sotto ricatto dal Tea party, ha concesso tagli per 39 miliardi di dollari solo in quest’anno. Ovvero la più drastica cura dimagrante ai programmi sociali e alla spesa pubblica da decenni a questa parte, più severa di qualunque azione intrapresa da Ronald Reagan o George Bush. Maanche questo tentativo di conciliazione è fallito come ha dimostrato il gesto senza precedenti compiuto il 18 aprile dall’agenzia di rating Standard & Poor’s, che ha declassato il debito pubblico Usa da «stabile» a «negativo»: l’aver mantenuto la tripla AAA non ha infatti alcun significato visto che togliere una A avrebbe provocato un terremoto finanziario tale da oscurare il giovedì nero del 1929. Le agenzie di rating per mestiere assegnano i voti ai debitori: peggiore il voto, più alto è considerato il rischio, quindi più alta deve essere la remunerazione di chi presta e quindi più salati sono gli interessi pagati sul proprio debito. Sui loro voti (al loro rating) è basato l’interesse a cui i vari soggetti (stati, comuni, imprese) chiedono un prestito, come ben sanno Grecia, Irlanda e Portogallo. Il problema è che le agenzie di rating (sono solo due quelle che contano: Standard & Poor’s appunto e Moody’s) sono società  private che non devono rendere conto a nessuno: per esempio Moody’s è controllata dal miliardario Warren Buffett che per altro con i suoi fondi specula sui bonds emessi dagli stati a cui Moody’s dà  i voti. Società  private insindacabili che determinano la politica degli stati, costringono a tagliare pensioni e spesa sanitaria. Declassando il debito pubblico Usa, Standard & Poor’s è intervenuta pesantemente nella lotta politica interna e nella campagna presidenziale schierandosi contro Barack Obama. Questo declassamento corrisponde a una dichiarazione di guerra di tutta Wall Street contro Obama, che nel frattempo si era alienato la propria base sociale. È perciò questione di vita o di morte per Obama riuscire a riconquistare la propria base. L’unica sua speranza è che migliori l’andamento dell’occupazione e che i repubblicani siano costretti a scegliere un candidato abbastanza repellente da far tornare all’ovile i twitters, i facebookers e i googlers d’America.


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