La corsa del cavaliere nel teatro dell’assurdo

by Editore | 8 Aprile 2011 6:23

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Non diremmo tale l’avvento del regime mussoliniano: quel socialista anarcoide, poi uomo d’ordine che forniva squadre agli agrari, ha dalla sua monarchia, esercito, prefetti, magistrati, carabinieri, Vaticano, ceti ricchi, piccoli borghesi; l’ha chiamato Vittorio Emanuele III, 30 ottobre 1922; il governo nascente dura 20 anni, 8 mesi, 25 giorni attraverso molti rimpasti. Lo Stato totalitario escresceva nel rispetto formale dello Statuto. Adolf Hitler conquista il Reich usando meccanismi predisposti dai costituenti (Weimar, quaranta sedute, 6 febbraio-31 luglio 1919). In quattro anni, dal settembre 1930, i tedeschi votano sei volte: il partito nazionalsocialista declina dal 37.3 al 33.1% ma resta il più forte, 196 seggi su 584; adoperando lo stupido vanesio Franz von Papen, caro al moribondo presidente Paul von Hindenburg, lunedì 30 gennaio 1933 l’emergente diventa cancelliere; e in capo a 55 giorni il Reichstag gli vota i pieni poteri. Poiché la riforma contempla leggi emanate dal governo, anche devianti dalla Carta, erano richiesti i due terzi: vota sì il Centro cattolico, presieduto dal teologo monsignor Ludwig Kaas; confidente nella lettera dove Hindenburg attesta una promessa dal dittatore, che non userà  quei poteri senza consultarlo; esito trionfale, 441 contro 94. Morto lo pseudogarante, 2 agosto 1934, gli succede l’ex caporale, ormai Fà¼hrer, e un plebiscito 19 agosto conferma il cumulo delle cariche. Precedenti su cui meditare nell’analisi politica italiana 2011. Le due persone stanno agli antipodi. Uno non sorride mai: disoccupato, abulico, taciturno, vendeva acquarelli; nel dopoguerra, scopertosi oratore e stregone, scende in politica elucubrando piani d’impero a Est. L’altro ride a quattro ganasce, canta, strimpella, blatera: li chiamavano «bagalùn del là¼ster» (lucido da scarpe), ma i modi ilari mascherano fredde viscere d’affarista gangster paranoico: epiteti rigorosamente pesati, descrivono dei fatti; ed è miscela terrificante. L’irresistibile ascesa avviene nel mondo finto delle televisioni. La sua formula è sgominare i concorrenti violando ogni regola: le menzogne gli colano come acqua d’una fontana; rampa, traffica, plagia, scrocca, falsifica, corrompe, froda; persi i protettori, salta sul carro professandosi liberale, patriota, uomo pio, defensor crucis et familiae, campione dei valori borghesi, capitano d’impresa. Siamo al diciassettesimo anno. L’avventura hitleriana ne aveva riempiti 12, finendo nel sottosuolo d’una Germania diroccata. Costui ne passa otto e mezzo al governo e v’influiva anche da fuori. S’è intessuto la tela d’una signoria plutocratica: i soldi figliano soldi; dovunque fioriscano grossi affari, non cade nel sospetto temerario chi lo supponga interessato, mentre i livelli intellettuali scendono, quelli della povertà  salgono e il futuro italiano appare squallido. Mago nell’arricchirsi, considera in tale chiave la cosa pubblica. Che l’«omnipotence de la majorité» sia pericolosa, l’aveva notato Tocqueville studiando gl’istituti americani, 1835. L’Italia 2011 è il corpo vile d’una patologia da laboratorio: due assemblee legiferano come anticamera del ricco strapotente; con quel passato aveva conti aperti e se li addomestica; non finisce mai l’elenco delle norme pro domo sua. Gliene stanno combinando tre, nella sede stravagante d’una legge comunitaria: essendosi accorciata la prescrizione, opera un secondo taglio utile agl’incensurati, in spregio all’art. 3 Cost.; affattura l’oblio dei processi pendenti; che svaniscano come non fossero mai nati, manomissione altrettanto incostituzionale; e conta d’intimidire i magistrati esponendoli all’aggressione del sedicente leso (oggi risponde lo Stato, salva rivalsa sull’autore del danno). Mediante revisione della Carta progetta pubblico ministero governativo e azione penale regolata sui beneplaciti delle Camere. Sapendosi molto vulnerabile, tre volte s’era allestita un’immunità , invalida e tale dichiarata dalla Corte. Lo serve una masnada pronta a tutto: quando dallo schermo i corifei rivendicano la «sovranità  del Parlamento», lo spettacolo sta tra farsa e guignol; dopo trent’anni d’ipnosi televisiva la platea beve ogni fandonia. Nella gestione del personale politico ha pochi scrupoli: d’un colpo recluta quanti oppositori bastano a impedire la sfiducia; rispetto alle attuali le Camere fasciste erano consessi quasi seri. Lo stile berlusconiano implica feroci selezioni in peius. Qui l’entertainer barzellettiere svela un aspetto comune al tetro pittore d’acquarelli (imbianchino, lo chiamava D’Annunzio): nessuno dei due può fermarsi; puntano diritto col passo del sonnambulo. Avventura rischiosa: uno sprofonda, straccio d’uomo, appena compiuti 56 anni; avendone 19 in più, l’altro vuol insediarsi nel Quirinale, fino al 2020 et ultra, se Iddio lo conserva. Niente d’impossibile nell’Italia catalettica: a sinistra siede chi gli prestava mano; ancora pochi giorni fa dialoganti in pectore trasalivano, quando il guardasigilli baro vantava disegni d’equa riforma organica. La partita finale è un dibattimento: tenta d’impedirlo sollevando Montecitorio; mossa futile, quindi guadagnerà  tempo. Le ipotesi penali hanno due nomi cospicui, concussione e prostituzione minorile. Lo scenario d’accusa evoca i Ragionamenti d’Aretino, troupes femminili mercenarie, lenoni, maà®tresses, ma lui grida d’essere perseguitato dalla procura milanese, sorda «all’evidenza del ridicolo»: nella sua cultura d’imbonitore esistono ancora i giuramenti purgatori, quindi sulla testa dei cinque figli e sei nipoti giura d’essere innocente; infine, denuncia il solito complotto toghe-comunisti, nel quale convola la Consulta. Pulpiti «equidistanti» deplorano l’accanimento hinc inde (P. L. Battista, Corriere della Sera, 31 marzo 2011): «Siamo sull’orlo del precipizio»; ed è inutile dire quale sia l’uscita giusta, inchinarsi al designato dalle urne, chiudendo gli occhi su persona e gesta. Tocqueville obietterebbe qualcosa. Nel teatro italiano dell’assurdo costoro vestono livrea liberale.

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